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Se avete assistito alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo li avrete sicuramente notati. Un gruppo di 29 persone che sfilava subito dopo la Grecia, prima per tradizione, tenendo in alto la bandiera bianca raffigurante i cinque cerchi olimpici.
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È il Refugee Olympic Team, la squadra olimpica dei rifugiati che, dalle Olimpiadi di Rio del 2016, ha iniziato a partecipare ai Giochi.
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Quando raccontiamo la storia di queste persone, parliamo sì di atleti professionisti che cercano di conquistare ambite medaglie ma la loro presenza, anche in quanto rifugiati, va ben oltre.
Se avete assistito alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo, tenutasi venerdì 23 alle 13 italiane (le 20 per l’ora locale), li avrete sicuramente notati. Un gruppo di 29 persone che sfilava subito dopo la Grecia, prima per tradizione, tenendo in alto la bandiera bianca raffigurante i cinque cerchi olimpici. È il Refugee Olympic Team, la squadra olimpica dei rifugiati che, dalle Olimpiadi di Rio del 2016, ha iniziato a partecipare ai Giochi.
La storia
Nel 2015, il rapporto annuale Global trends dell’Unhcr (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) che traccia le migrazioni forzate nel mondo, mostrava come circa 65.3 milioni di persone nelle zone del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia centrale, a causa di guerre e persecuzioni, fossero state costrette a lasciare le loro case, e la loro vita quotidiana, per rifugiarsi in Europa. Quella stessa estate il Cio (Comitato olimpico internazionale) ha deciso di istituire un Fondo di emergenza per i rifugiati, donando 2 milioni di dollari per sostenere le agenzie di aiuto internazionali a integrare i rifugiati nello sport. A ottobre del 2015, durante l’Assemblea generale dell’Onu, a fronte della crisi globale dei rifugiati, il presidente Cio Thomas Bach, ha annunciato la creazione della squadra olimpica dei rifugiati con l’obiettivo di mandare un messaggio di speranza, solidarietà e pieno sostegno a quelle persone che non potevano più rimanere nei loro paesi, dando dimostrazione a tutti i ceti sociali dell’importanza di avere dei diritti.
Grazie al programma dell’Olympic solidarity, progetto nato nel 1960 volto a promuovere non solo borse di studio per atleti rifugiati e allenatori ma anche finanziamenti individuali e supporti speciali, come nel caso della pandemia da coronavirus, dieci mesi dopo, dieci atleti (6 uomini e 4 donne) provenienti dal Sudan del sud, dalla Repubblica Democratica del Congo, dalla Siria e dall’Etiopia, hanno sfilato per la prima volta a Rio de Janeiro davanti a milioni di persone e rappresentando loro stessi milioni di persone che ogni giorno rischiano la vita.
Tokyo 2020
Yusra Mardini ha imparato prima a nuotare che a camminare. Il padre era un istruttore di nuoto e ha trasmesso la passione alle due figlie. A causa della guerra in Siria, nel 2015 Yusra ha iniziato a spostarsi con la famiglia da Damasco a Beirut, da Istanbul a Smirne. Per arrivare sull’isola greca, lei e la sorella rimasero a galla per tre ore spingendo la barca su cui si trovavano altri rifugiati. Prima di arrivare a Berlino, dove risiede, ha raggiunto la Germania in treno e poi a piedi. Yusra fa parte, per la seconda volta dopo Rio 2016, della squadra dell’Eor (l’acronimo ufficiale del team rifugiati: Equipe Olympique des Réfugiés) assieme ad altri 28 atleti (11 donne e 18 uomini) che partecipano alle Olimpiadi di Tokyo in 12 discipline: atletica leggera, badminton, boxe, canoa, ciclismo su strada, judo, karate, tiro, nuoto, taekwondo, sollevamento pesi e lotta libera.
Come la nuotatrice Madrini, anche i sudsudanesi Anjelina Nadai Lohalith, James Chiengjiek, Paulo Lokoro, Rose Lokonyen e il congolese Popole Misenga sono alla loro seconda Olimpiade. Abdullah Sediqi, Masomah Ali Zada e Nigara Shaheen sono fuggiti dall’Afghanistan. Ahmad Alikaj, Ahmad Wais, Alaa Maso, Aram Mahmoud, Muna Dahouk, Sanda Aldass, Wael Shueb e Wessam Salamana provengono dalla Siria. Aker Al Obaidi è iracheno, è scappato da Mosul a 14 anni quando il gruppo armato dello Stato Islamico aveva preso il controllo della sua città e iniziato a reclutare i ragazzi della sua età. Cyrille Tchatche II viene dal Camerun e nel 2014, a 19 anni, ha pensato di farla finita. Viveva sotto un ponte per le strade della Gran Bretagna dopo essere fuggito dalla sua città natale per motivi di cui ancora non riesce a parlare. Dorian Keletela ha perso entrambi i genitori a causa del conflitto nella Repubblica Democratica del Congo. È arrivato in Portogallo nel 2016 assieme alla zia. Il venezuelano Eldric Sella Rodriguez ha iniziato a 10 anni a tirar di boxe, nel 2014 la famiglia lo ha convinto a fuggire nella vicina Trinidad e Tobago per trovare un futuro migliore. Dina Pouryounes Langeroudi, Hamoon Derafshipour, Javad Mahjoub, Kimia Alizadeh e Saeid Fazloula provengono dall’Iran. Quando Jamal Abdelmaji Eisa Mohammed aveva 10 anni, nel 2003, i membri della milizia Janjaweed bruciarono il suo villaggio in Sudan uccidendo 97 persone, incluso suo padre. Tachlowini Gabriyesos e Luna Solomon sono eritrei, quest’ultima è allenata dall'olimpionico italiano Niccolò Campriani.
L’importanza di una presenza
«L’Unhcr è incredibilmente fiera di sostenere gli atleti mentre gareggiano alle Olimpiadi di Tokyo. Sopravvivere alla guerra, alla persecuzione e all’ansia dell’esilio li rende già persone straordinarie, ma il fatto che ora eccellano anche come atleti sulla scena mondiale mi riempie di immenso orgoglio» ha spiegato sui canali ufficiali dell’organizzazione Filippo Grandi, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati e vice presidente della Fondazione olimpica per i rifugiati. «Questi atleti incarnano le speranze e le aspirazioni degli oltre 80 milioni di persone nel mondo che sono state sradicate dalla guerra e dalla persecuzione. Servono a ricordare che tutti meritano la possibilità di avere successo nella vita».
Le parole di Grandi rendono quello che fondamentalmente incarna lo spirito dell’Eor. Quando raccontiamo la storia di queste persone, parliamo sì di atleti professionisti che cercano di conquistare ambite medaglie ma la loro presenza, anche in quanto rifugiati, va ben oltre. E le riflessioni della già citata Yusra Madrini, diventata nel 2017 Ambasciatrice di buona volontà dell’Unhcr, rendono il concetto: «Tutto è cambiato quando sono entrata nello stadio di Rio. In quel momento ho smesso di pensare a me stessa, ma alla comunità per cui sto combattendo e all’essere una voce per chi non ne ha».
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