- Se il ministro Piantedosi avesse avuto presente la sentenza della Cassazione sul caso Rackete, avrebbe potuto evitare tante affermazioni infondate, che quella sentenza smentisce.
- L’obbligo di prestare soccorso, secondo i giudici, «non si esaurisce nell'atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare», come invece sostiene Piantedosi, ma comporta l'obbligo di «sbarcarli in un luogo sicuro».
- E non può trattarsi di una nave in mare, che resta «in balia degli eventi metereologici avversi» e ove non può esercitarsi ogni diritto.
Il braccio di ferro tra le navi delle Ong e il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha fatto tornare alla mente il periodo in cui Matteo Salvini era al Viminale: Salvini vietava l’ingresso delle navi, Piantedosi le ha fatte entrare in porto con “sbarchi selettivi” – ma la sostanza non cambia. E non cambia l’esito: tutte le persone sono sbarcate.
Se il ministro Piantedosi avesse avuto presente la sentenza della Corte di Cassazione (n. 6626/2020) sul caso di Carola Rackete, comandante della nave Sea Watch 3, forse avrebbe potuto evitare ciò cui abbiamo assistito in questi giorni.
La nave come posto sicuro
«I migranti non sono in mare, sono al sicuro», ha detto il ministro dell'Interno nei giorni scorsi. Una tesi analoga era stata rigettata dai giudici nel caso Rackete.
All’epoca, la procura sosteneva che l'attività di soccorso non richiederebbe di portare a terra i naufraghi, ma consisterebbe solo nella loro conduzione in un “place of safety”, che può essere qualunque “posto”.
Quindi, “posto sicuro” potrebbe anche essere una nave, dato che sull’imbarcazione i naufraghi non sono più esposti a «pericolo imminente» per la loro vita.
La Cassazione ritenne infondata questa tesi. «L’obbligo di prestare soccorso, dettato dalla convenzione internazionale Sar di Amburgo» - affermarono i giudici - «non si esaurisce nell'atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l'obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro». E lo sbarco deve avvenire «nel più breve tempo ragionevolmente possibile».
Ai sensi delle Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78, 2004), elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo, agenzia delle Nazioni Unite), allegate alla Convenzione Sar (Search and Rescue), una nave che presta assistenza può costituire solo «temporaneamente un luogo sicuro» e dovrebbe essere sollevata quanto prima dalla responsabilità dei naufraghi.
Pertanto, un’imbarcazione non è “posto sicuro” ove il salvataggio finisce. Basti pensare – affermano i giudici – che una nave in mare resta «in balia degli eventi metereologici avversi», oltre a non consentire «il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse».
Dunque, l’affermazione di Piantedosi per cui la nave è un posto sicuro, ove i migranti possono aspettare indefinitamente che qualcuno li faccia scendere a terra, non ha fondamento.
La nave come luogo ove chiedere asilo
Secondo Piantedosi «se si sale su una nave è come se si fosse saliti su un’isola sotto l’egida territoriale del paese di bandiera, e questo dovrebbe far radicare gli obblighi di assistenza», quindi anche di asilo, ai sensi del Regolamento di Dublino. In un articolo precedente abbiamo esposto i motivi per cui la tesi del Viminale non pare fondata.
La nave non può essere considerata un posto sicuro, ai sensi delle convenzioni internazionali, anche perché a bordo i migranti non potrebbero esercitare tutti i loro diritti, incluso quello di chiedere protezione internazionale, assistiti da interpreti e mediatori culturali.
Sull’imbarcazione di soccorso mancano strumenti e personale idoneo a istruire una domanda di asilo. Peraltro, nelle citate Linee guida si afferma che qualunque formalità relativa alle persone soccorse va svolta a terra, per non ritardare lo sbarco (par. 6.20).
Questa tesi trova conferma dalla Cassazione: a bordo non possono essere esercitati tutti i «diritti fondamentali delle persone soccorse», tra cui quello di «presentare domanda di protezione internazionale (…), operazione che non può certo essere effettuata sulla nave».
I giudici richiamano la risoluzione del Consiglio d’Europa (n. 1821/2011), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.).
Se l’imbarcazione di soccorso non può essere considerata un “posto sicuro”, quindi luogo di primo arrivo, per lo Stato di bandiera non scatta l’obbligo di accoglienza e di esame delle istanze di asilo secondo il Regolamento di Dublino.
Passaggio pregiudizievole di una nave
Nel decreto con cui il ministro dell’Interno, di concerto con Infrastrutture e Difesa, ha disposto lo “sbarco selettivo” dalla Humanity 1, è scritto che, per le modalità con le quali la nave ha operato, «il transito e la sosta nel mare territoriale si configurano come pregiudizievoli per l'ordine e la sicurezza pubblica».
Ciò in quanto sarebbe stata violata la norma (decreto legge n. 130/2020), che ha modificato il decreto Sicurezza bis, secondo cui può essere vietato il passaggio di una nave che, tra l’altro, non comunichi immediatamente le operazioni di soccorso al centro di coordinamento competente e allo stato di bandiera.
Per il Viminale, la Humanity 1 non avrebbe rispettato gli obblighi di comunicazione previsti e ciò renderebbe pregiudizievole il passaggio della nave nelle acque territoriali.
La disposizione solleva molti dubbi, in quanto pare contraria alla convenzione Solas (Safety Of Life At Sea), secondo cui la comunicazione alle autorità competenti è dovuta solo «se possibile», e non tassativamente, come invece afferma la norma nazionale. Ma una convenzione internazionale è di rango superiore rispetto alla norma di una legge ordinaria (articoli 10 e 117 della Costituzione).
Piantedosi farebbe bene a valutare questa discrasia fra norme, anziché reputare automaticamente come “non inoffensivo” il passaggio in mare di navi con migranti irregolari a bordo, e quindi di vietarlo.
Peraltro, i migranti sulla nave, anche se irregolari, potrebbero avere diritto alla protezione internazionale, circostanza accertabile dopo la loro identificazione, che può avvenire solo in appositi centri sulla terra ferma – come previsto dall’art. 10-ter del Testo Unico sull’immigrazione – e non a bordo di una nave.
Omettere di informare il centro di coordinamento sull’inizio dell’operazione di soccorso di una imbarcazione in condizione di distress non può trasformare automaticamente il soccorso stesso in un’ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, come in questi giorni si evince da alcune dichiarazioni di esponenti politici.
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