Nello stesso periodo in cui la procura di Trapani monitorava cronisti e operatori umanitari che si occupavamo di salvataggi e Libia, quella di Locri registrava le conversazioni di giornalisti, giudici e perfino del portavoce del presidente della Camera. Tutte conversazioni irrilevanti per la polizia giudiziaria, ma trascritte comunque con il risultato di rivelare indirizzi, rapporti confidenziali e dettagli di vita privata.
- Tra 2016 e 2017, lo stesso periodo dell’inchiesta sulle Ong di Trapani nell’ambito della quale sono stati intercettati direttamente e indirettamente giornalisti, avvocati e magistrati, in Calabria c’era un’altra inchiesta politicamente sensibile sul sindaco di Riace.
- Nell’inchiesta della procura di Locri sono state ascoltate e trascritte le conversazioni con indagati di 33 tra giornalisti intercettati, tre magistrati, uno degli avvocati difensori di Lucano, un viceprefetto.
- Nei “brogliacci” finiscono, oltre al nome del “chiamante” e al contenuto delle conversazioni, numeri di telefono e indirizzi mail degli intercettati. Il tutto, poi, confluisce nell’intero fascicolo d’indagine.
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C’è una costante nelle inchieste che riguardano il sistema dell’immigrazione nel nostro paese. Da quelle che sulle Ong che con le loro navi salvano vite nel Mediterraneo, fino al sistema di accoglienza. La costante è nell’uso massiccio delle intercettazioni. Telefoniche e ambientali. È quello battezzato ormai come “metodo Trapani”. Inchieste che durano anni, migliaia di intercettazioni, milioni di parole, moltissime senza alcuna importanza ai fini dell’inchiesta, alla lettura addirittura superflue se non proprio del tutto inutili. Nomi di persone intercettate, numeri di telefono, indirizzi mail, registrati e finiti nei fascicoli e a disposizione di tutti.
È quanto successo a Trapani, e, quasi nello stesso periodo temporale, tra 2016 e 2017, a Riace nell’inchiesta “Xenia”, quella che ha portato all’arresto di Mimmo Lucano, al suo esilio e alla sua decadenza da sindaco. Con la conseguenza, drammatica, della sospensione di ogni tipo di finanziamento pubblico al “modello” di accoglienza che in quel paese nel cuore della Calabria si stava sperimentando da anni, con apprezzamenti anche a livello internazionale.
33 giornalisti ascoltati
Il metodo di conduzione dell’inchiesta appare lo stesso, ma con una differenza, a Trapani sono stati intercettati i giornalisti anche quando non parlavano direttamente con gli indagati (come rivelato dall’inchiesta di Domani), a Riace sono state ascoltate, e scritte nei verbali, le conversazioni che giornalisti, avvocati e magistrati, avevano con il maggiore indagato, Mimmo Lucano.
I numeri sono impressionanti: 33 giornalisti intercettati, tre magistrati (di cui uno finito sotto inchiesta e poi archiviato), uno degli avvocati difensori di Lucano, un viceprefetto.
Le testate coinvolte vanno da Famiglia Cristiana alla tv Svizzera, passando per Repubblica, Il Fatto Quotidiano, Il Quotidiano del Sud, la Rai, Mediaset, La7, più una lunghissima teoria di giornali, tv e siti locali, dall’Ansa al Corriere della Calabria alla Gazzetta del Sud. È stata Intercettata anche Valentina Loiero, la portavoce di Laura Boldrini, in quel periodo presidente della Camera dei deputati.
Tre i magistrati messi “sotto ascolto”, Roberto Lucisano (Presidente della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria), Olga Tazia (Presidente dei collegi che hanno condannato gli autori dell’omicidio Fortugno, e l’ex presidente della regione Giuseppe Scopelliti), ed Emilio Sirianni. Più l’avvocato difensore e un viceprefetto. Tutti i soggetti citati potevano essere intercettati, nessuno era al di sopra della legge o poteva vantare un diritto personale o di status a non esserlo, tutti venivano ascoltati e registrati perché in contatto con l’indagato più importante dell’inchiesta. Ma il punto è un altro, perché trascrivere tutte le conversazioni, anche quelle che la stessa polizia giudiziaria (in questo caso la Guardia di finanza) riteneva poco importanti?
Tutto rivelato
La domanda non è peregrina, visto che nei “brogliacci” (che Domani ha avuto modo di leggere) finiscono, oltre al nome del “chiamante” e al contenuto delle conversazioni, numeri di telefono e indirizzi mail degli intercettati.
Il tutto, poi, confluisce nell’intero fascicolo d’indagine. Carte di fatto pubbliche, a disposizione di decine di persone, oltre agli investigatori e ai magistrati, avvocati della difesa e delle parti civili. Nel caso del “processo Lucano” stiamo parlando di 30 imputati con 22 avvocati, ai quali vanno aggiunti i legali delle parti civili (ministeri, prefettura e varie).
Decine di soggetti che hanno a disposizione il numero di cellulare di tre magistrati, di cui due impegnati anche in inchieste che riguardano la ‘ndrangheta, e di una trentina di giornalisti. C’è poi la questione del contenuto delle intercettazioni. Lucano, come è noto a chi lo conosce, è un soggetto che parla tanto, quando si fida di un giornalista tende ad aprirsi, a raccontarsi.
Nelle intercettazioni sono finite alcune confidenze sulla sua situazione familiare, sui rapporti con la moglie, sulla condizione dei suoi tre figli (tutti maggiorenni, totalmente estranei all’inchiesta, e con una vita autonoma e propria), che sono state rese pubbliche e che non erano assolutamente utili né alle indagini, né al processo.
L’impressione che si ricava leggendo brogliacci e fascicoli è quella di una sorta di continuità nel metodo delle inchieste su tutto ciò che riguarda il dramma dell’immigrazione.
Forse non voluta, probabilmente casuale, ma con una conseguenza comune: ricostruire la “rete” dei soggetti che appoggiano le ong e i sistemi di accoglienza che operano, Riace è il caso più eclatante, in modo alternativo rispetto alle politiche dei governi. L’obiettivo? Scoprire quella che il Giornale ha definito in un titolo «la superlobby buonista che ci riempie di immigrati». Volontari, giornalisti e preti.
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