- In una nota congiunta, la Santa sede ha ripudiato la “dottrina della scoperta”, ovvero quei decreti pontifici che nei secoli hanno giustificato, attraverso l’evangelizzazione di nuovi territori, i soprusi e le violenze sui popoli nativi dei continenti extra europei.
- In un’intervista parallela, il cardinale prefetto Michael Czerny ha ricordato che le bolle non sono magistero. Ma non ha spiegato perché i documenti ebbero un ruolo essenziale nel massacro dei popoli nativi.
- Nel documento manca la parola «genocidio», la stessa che i nativi canadesi avevano chiesto al papa di pronunciare durante il suo viaggio in Canada. Cosa accadrà adesso nella chiesa locale?
«Annulla la dottrina». Con questo slogan i popoli nativi riunitisi nel santuario nazionale di Sant’Anne de Beaupré hanno accolto il papa lo scorso luglio durante la sua visita in Canada. E il papa li ha ascoltati. Con una nota congiunta dei dicasteri per la Cultura e l’educazione e per il Servizio dello sviluppo umano integrale, la Santa sede ha ripudiato la “dottrina della scoperta”, ovvero quei decreti pontifici che nei secoli hanno giustificato, attraverso l’evangelizzazione di nuovi territori, i soprusi e le violenze sui popoli nativi dei continenti extra europei.
«Il primo punto, quello fondamentale, è che i popoli indigeni lo hanno chiesto» ha spiegato a Vatican News il cardinale Michael Czerny, prefetto del dicastero, che ha descritto il documento come l’esito di una riflessione iniziata prima del viaggio di Francesco in Canada, per poi aggiungere che la condanna delle «false idee che hanno infettato troppi atteggiamenti in Canada» è l’unica strada per «camminare in modo solidale con l’obiettivo della guarigione e riconciliazione».
Le terre di nessuno
La cosiddetta “dottrina della scoperta” viene fatta risalire a tre bolle papali emanate nella seconda metà del Quattrocento. La principale, la Romanus Pontifex (1455), fu redatta da papa Niccolò V per garantire il possesso delle terre scoperte in Africa e affacciate sull’Atlantico al re del Portogallo Alfonso V. È in questo documento che si parla per la prima volta delle «terre di nessuno».
Oggi il cardinale Czerny specifica che «una bolla è una decisione o un decreto con un sigillo, ma non è magistero, non è dottrina, non è insegnamento». Eppure secoli fa bastava il veto papale per avocare a sé i territori dei nativi ritenuti fuori dalla grazia divina, quindi popoli da evangelizzare o schiavizzare.
Lo stesso Cristoforo Colombo, dopo lo sbarco a San Salvador, tenne una cerimonia per prendere possesso della terra a nome dei reali di Spagna sotto l’egida della croce, per poi impiegare gli anni seguenti a evangelizzare le tribù caraibiche. Lo mostra chiaramente il più antico manufatto amerindio di arte cristiana conservato nella sezione etnologica dei Musei vaticani: un leggio di legno a forma di conchiglia che apparteneva al frate Bartolomeo de Las Heras, che visse con l’esploratore genovese a Cuba.
Numeri, non parole
Il documento non chiarisce la responsabilità storica della chiesa. Quando la Nota sottolinea che la chiesa ha acquisito una consapevolezza delle «politiche di assimilazione forzata, promosse dalle autorità governative del tempo, volte a eliminare le loro culture indigene» non può ridimensionare il suo peso, soprattutto ideologico, nelle espropriazioni violente avvenute in passato.
Eppure, sia la Nota che l’intervista del cardinale Czerny sembrano quasi sgravare la chiesa dalle proprie responsabilità. Interpellato sul sostegno ai diritti dei popoli nativi, il cardinale canadese ha menzionato la bolla Sublimis Deus (1537) con cui papa Paolo III scrisse: «Definiamo e dichiariamo che i cosiddetti indiani e tutti gli altri popoli che in seguito potranno essere scoperti dai cristiani, non siano in alcun modo privati della loro libertà o del possesso dei loro beni, anche se sono estranei alla fede cristiana».
Ma se è vero che la bolla non vale come magistero, pesano oggi i numeri stilati dalla Commissione per la verità e la riconciliazione all’indomani della scoperta delle tombe nei pressi delle scuole residenziali canadesi gestite dalla chiesa cattolica: almeno quattromila bambini furono strappati alle loro famiglie e spesso seviziati al punto tale che le Nazioni unite, nel 2007, hanno condannato le scuole residenziali quali «vettori essenziali della riduzione in schiavitù dei primi popoli» (Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni).
Il ruolo della chiesa
A proposito dell’America Latina, per esempio, l’elemento cristiano dei regni europei è imprescindibile, come scrive Diego Battistessa, docente all’Università Carlo III di Madrid, nel saggio America Latina donna forte e insorgente (Aut Aut edizioni): «Viene stabilito un nuovo spazio di potere e di dominio del mondo cristiano eurocentrico, con le sue visioni civilizzatrici, che configura nuove relazioni di produzione schiavista e disegna la nuova mappa delle Americhe».
Papa Francesco è il primo pontefice ad aver riconosciuto il debito europeo nei confronti delle Americhe. Di ritorno dal Canada, ha parlato di «atteggiamento colonialista di ridurre la cultura (dei nativi, ndr) alla nostra. È una cosa che ci viene dal modo di vivere sviluppato nostro, che delle volte perdiamo dei valori che loro hanno».
Nel 2015, all’incontro mondiale dei movimenti popolari di Santa Cruz de la Sierra in Bolivia, ammetteva: «Si sono commessi molti e gravi peccati contro i popoli originari dell’America in nome di Dio. Lo hanno riconosciuto i miei predecessori, lo ha detto il Celam, il Consiglio episcopale latinoamericano, e lo voglio dire anch’io. Come san Giovanni Paolo II, chiedo che la chiesa si inginocchi dinanzi a Dio e implori il perdono per i peccati passati e presenti dei suoi figli».
Ma, se nel 1992 Giovanni Paolo II sottolineava «più luci che ombre» nell’evangelizzazione del continente americano, è in occasione del viaggio in Bolivia che Francesco ha bandito il termine «scoperta dell’America» in nome della «cosiddetta conquista dell’America».
Perché se è vero che – come sottolinea la Nota – «ci sono stati anche numerosi esempi di vescovi, sacerdoti, religiosi, religiose e fedeli laici che hanno dato la loro vita in difesa della dignità di quei popoli», va anche ricordato che, durante l’espansione coloniale del Sedicesimo secolo, un chierico come Bartolomé de Las Casas, rimasto solo a difendere gli indigeni, fu osteggiato proprio dalla chiesa locale, come emerge dalle lettere scritte dal vescovo del Guatemala, Francisco de Marroquín.
Il genocidio non c’è
Contrariamente alle aspettative dei popoli nativi canadesi, nella Nota non compare la parola «genocidio». L’espressione «genocidio culturale» è apparsa per la prima volta nel rapporto elaborato dalla Commissione per la verità e la riconciliazione nel 2015 e sul tema il papa era già stato interpellato di ritorno da Iqaluit. «Sì, è una parola tecnica genocidio ma io non l’ho usata perché non mi è venuta in mente. Ho descritto che è un genocidio» ha però ammesso.
Se la Nota abroga formalmente le bolle pontificie del Quattrocento, è la visione della chiesa missionaria di papa Francesco a rompere con un modello culturale arrivato fino a Benedetto XVI. Il papa tedesco, infatti, tracciava nel «cristianesimo dei perseguitati» il legame fra religione e ordinamento statale (L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, LEV).
Per Francesco, invece, il cristianesimo non è più la religione dei martiri, ma dei «sobrantes», gli scartati. Per questo, riconoscere i crimini passati significa rigettare le derive coloniali ancora in atto nei paesi più poveri. Non è un caso che le parole più dure contro il colonialismo il pontefice le abbia pronunciate un mese fa, nella Repubblica democratica del Congo: «Giù le mani dall’Africa, non è una miniera da sfruttare e da saccheggiare».
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