Il pontefice ha chiamato alla guida delle principali diocesi italiane outsider scelti fra parroci, missionari e teologi. Ma la rivoluzione è riuscita a metà: mancano figure autorevoli in grado di affrontare i nodi della crisi della chiesa
Papa Francesco ha lasciato l’Italia senza cardinali, o quasi. In realtà i cardinali italiani ci sono ancora, ma il grosso di loro si trova in Vaticano o nel servizio diplomatico.
In tutto i porporati provenienti dalla penisola sono 50, tuttavia 34 di questi hanno più di 80 anni, hanno perso cioè il diritto di partecipare a un futuro conclave, 16 sono invece – a oggi – i cardinali elettori, dei quali solo 6 alla guida di diocesi (Como, L’Aquila, Siena e Bologna in Italia, a queste vanno aggiunte la sede del patriarcato latino di Gerusalemme e la prefettura apostolica in Mongolia, rispettivamente guidate dai cardinali Pierbattista Pizzaballa e Giorgio Marengo); il resto ricopre incarichi di curia, fa il nunzio in qualche paese o, di fatto, il pensionato.
Di certo, Francesco ha smantellato in Italia la tradizione delle cosiddette sedi cardinalizie, ovvero di quelle diocesi cui, di norma, oltre alla nomina come arcivescovo seguiva l’assegnazione della porpora. Non ci sono più cardinali a Genova, Milano, Torino, Napoli, Firenze e perfino a Roma, dove il papa ha licenziato – in anticipo sui tempi canonici – il suo vicario, da lui stesso nominato e “creato” cardinal, Angelo De Donatis, perché evidentemente scontento di come stava svolgendo il suo lavoro. Anche a Venezia non c’è un cardinale, solo che il patriarca attuale, Francesco Moraglia, è stato nominato da Benedetto XVI e lì si è fermato.
Un missionario a Firenze
Da ultimo, poi, Francesco ha accettato le dimissioni, per raggiunti limiti di età e dopo i classici due anni di proroga, dell’arcivescovo di Firenze, il cardinale Giuseppe Betori, in passato segretario generale della Cei sotto la presidenza del cardinale Camillo Ruini.
Al suo posto ha nominato don Gherardo Gambelli, che ha trascorso 11 anni come missionario in Ciad, è stato poi parroco della Madonna della Tosse a Firenze, vicedirettore spirituale del seminario arcivescovile, e cappellano del carcere di Sollicciano.
Scelte di questo tenore, del resto, hanno caratterizzato quasi tutte le nomine compiute dal papa nelle grandi diocesi italiane (con l’eccezione forse di Milano): preti di frontiera, teologi, missionari, rappresentanti di qualche ordine religioso o movimento. Fra i nuovi vescovi, in generale, non sembra esserci nessuna voce di un cattolicesimo di base fuori dal coro, certo, e tuttavia il cambio di metodo e di personale, per varie ragioni, si è fatto sentire.
Interessante, in tal senso, quanto ha scritto il nuovo vescovo di Firenze nel saluto alla città: «Saluto le autorità e le istituzioni della città, esprimendo la mia ferma volontà di proseguire nella collaborazione “gomito a gomito” per la costruzione di una società più giusta e solidale, nell’attenzione e nel rispetto della dignità di ogni persona, soprattutto dei più poveri ed esclusi.
Davanti alla minaccia dell’espansione delle guerre nel mondo, ci sentiamo più che mai interpellati alla responsabilità di lavorare con più coraggio e tenacia per la pace, che si costruisce in maniera artigianale, nell’attenzione ai gesti quotidiani di perdono e riconciliazione. Vorrei concludere rivolgendo un ultimo saluto ai fratelli e alle sorelle detenuti, particolarmente quelli e quelle della casa circondariale di Sollicciano, in cui ho svolto il mio ministero come cappellano durante quest’anno pastorale».
Parole molto in linea con il magistero di Francesco. D’altro canto, oltre a Betori, sono andati via in questi anni cardinali come Angelo Bagnasco (Genova), Crescenzio Sepe (Napoli), Paolo Romeo (Palermo), Cesare Nosiglia (Torino), Angelo Scola (Milano).
Al loro posto sono arrivati Marco Tasca, ex superiore dei frati minori conventuali di Assisi, scelto come arcivescovo di Genova nel luglio del 2020. Monsignor Domenico Battaglia, che il 2 dicembre 2020 è stato nominato arcivescovo di Napoli; dal 1992 al 2016 aveva guidato il “Centro calabrese di solidarietà” (comunità dedita al trattamento e al recupero delle persone affette da tossicodipendenze), struttura legata alle Comunità terapeutiche di don Mario Picchi.
Quindi monsignor Corrado Lorefice, il 27 ottobre del 2015, è stato scelto come arcivescovo di Palermo. Lorefice vanta diversi incarichi come docente di teologia morale nel suo curriculum. Monsignor Roberto Repole è invece arcivescovo di Torino dal 2022 ed è stato, fra le altre cose, presidente dell'Associazione teologica italiana dal 2011 al 2019. Mario Delpini, ha ricevuto da Bergoglio la nomina ad arcivescovo di Milano nel luglio 2017, Delpini collaborava già da tempo col cardinale Scola in qualità di vicario generale della diocesi.
Senza leader autorevoli
Un’ondata di nomi nuovi, spesso scelti al di fuori di vecchie logiche, un segno certo di rinnovamento che non sempre ha dato dei risultati forti. Da una parte c’è un lavoro meno appariscente e di ricostruzione in corso, di fuoriuscita dall’ideologia neoconservatrice ruiniana che pure era necessario, dall’altra forse emerge ormai nella chiesa italiana un deficit di personalità, una certa carenza nell’esercitare una leadership visibile.
Manca, insomma, la voce capace di intervenire sui temi delicati della riforma della chiesa come dell’attualità politica. Sotto quest’ultimo aspetto la Cei si affida molto al cardinale Matteo Zuppi, presidente dei vescovi voluto anche dal papa e arcivescovo di Bologna, prelato esperto e prudente, proveniente dalla Comunità di Sant’Egidio.
L’organizzazione fondata da Andrea Riccardi ha assunto d’altro canto un ruolo di primo piano col pontificato di Francesco. Si pensi, per esempio, a monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita.
Sulle questioni che agitano il dibattito ecclesiale, invece, tutto tace. Dal tema degli abusi, al grave dissesto finanziario in cui versano alcune strutture diocesane, al nodo del ruolo dei laici e delle donne nella chiesa, ai temi bioetici più delicati, non si sente quasi mai una presa di posizione pubblica di un vescovo o di un’organizzazione laicale.
La crisi
Va detto che la chiesa italiana, esce dalla stagione del protagonismo ideologico pubblico promossa da Ruini e da Bagnasco, con la consapevolezza di una debolezza strutturale del cattolicesimo italiano, nascosta, negli anni passati, dall’attivismo politico della Cei. E con la quale si dovrà, prima o poi, cominciare a fare i conti.
Franco Garelli, studioso del fenomeno religioso in Italia, spiegava sul sito d’informazione Settimananews lo scorso agosto: «I dati più recenti (e attendibili) sulla pratica religiosa in Italia riguardano l’anno 2022 (anno perlopiù libero dalle restrizioni del lockdown) e illustrano il seguente scenario: chi partecipa ad un rito religioso almeno una volta alla settimana (per i cattolici, la messa alla domenica) è circa il 19 per cento della popolazione; per contro, sono assai più numerosi quanti in quell’anno non hanno mai frequentato un luogo di culto (31 per cento), se non per eventi particolari, come i riti religiosi di passaggio (battesimi, matrimoni, funerali)».
Quindi aggiungeva: «Si osserva anzitutto che il dato (del 2022) della frequenza settimanale ad un rito religioso comunitario è il più basso che si riscontra nella storia recente del nostro paese. Negli ultimi 20 anni (dal 2001 al 2022), il numero dei “praticanti regolari” si è quasi dimezzato (passando dal 36 per cento al 19 per cento), mentre i “mai praticanti” sono di fatto raddoppiati (dal 16 per cento al 31 per cento). In questo arco di tempo, il trend al ribasso è stato perlopiù progressivo, di anno in anno, ad eccezione di un picco all’ingiù che si è registrato nell’ultimo periodo, che è coinciso con l’esplosione del Covid-19. In 18 anni (dal 2001 al 2019), i praticanti regolari sono diminuiti di poco meno di un terzo; mentre nel solo triennio (2019-2022) il loro numero è sceso del 25 per cento».
In questo quadro va dunque collocato anche il dato generale relativo al calo delle nuove vocazioni, diminuite di oltre il 60 per cento negli ultimi 50 anni. I sacerdoti italiani sono passati, in base ai dati diffusi dalla stessa Cei, dai 38.209 del 1990, ai 29.162 del 2020, un decremento solo in parte compensato dall’arrivo dei preti stranieri che prestano servizio presso le diocesi italiane.
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