- La Parata della Vittoria di Mosca da oltre vent’anni è la messa solenne del culto della Grande guerra patriottica, la religione laica del regime che costituisce uno dei pilastri centrali della sua altrimenti traballante legittimità.
- La sfilata celebrava la ritrovata potenza militare della Russia, ma allo stesso tempo si è rivelata anche un potente strumento di soft power che un breve periodo ha unito nel ricordo la grande comunità della russofonia transnazionale.
- La prossima parata che si svolgerà il 9 maggio con l’esercito è stato umiliato e l’immagine positiva della Russia in frantumi segnerà il funerale di entrambe.
La prima prima Parata della vittoria si svolse il 24 giugno del 1945, quando le legioni di Stalin reduci dalle rovine di Berlino sfilarono per la Piazza rossa di Mosca con in testa gli stendardi nazisti catturati e tenuti a testa in giù in segno di sconfitta.
La prossima parata, che si terrà il 9 maggio, nell’anniversario della resa della Germania nazista a Berlino, avverrà in un clima completamente diverso. Gli eredi dell’Armata rossa sono stati umiliati da un esercito che pensavano di battere in un paio di giorni. La Russia è impegnata in un conflitto non dichiarato che sembra impossibile da vincere. Ancora peggio per Putin, l’insensatezza dell’invasione e le brutalità commesse hanno segnato il tramonto definitivo del progetto imperiale che voleva costruire con il cemento della mitologia della Grande guerra patriottica, incarnato dalla parata del 9 maggio.
Il pugno di ferro
Dopo la storica parata del 24 giugno 1945, l’Unione sovietica non celebrò il giorno della vittoria nella Piazza rossa né lo riconobbe come giorno festivo per oltre vent’anni. Per il regime che prometteva la liberazione di tutti i proletari del mondo, la vittoria contro il nazismo non era che uno piccolo tassello, e nemmeno il più importante.
Dopo la caduta dell’Urss, la parata è stata ripristinata nel 1995, ma è servito l’arrivo di Vladimir Putin per trasformarla nella vetrina privilegiata della ritrovata potenza militare russa. È stata sotto la sua guida che la parata si è perfezionata e il rituale si è codificato in un classico caso di invenzione della tradizione.
Ogni anno, quasi ventimila soldati e oltre tremila veicoli di ogni arma sfilano nella Piazza Rossa dopo il via dato dall’annuncio: «Attenzione! Parla Mosca!», le parole che introducevano le trasmissioni di Radio Mosca e che il 22 giugno del 1941 precedettero la notizia dell’invasione nazista.
La Parata della vittoria ha visto l’evoluzione delle forze armate russe da un deriso residuato dell’Armata rossa ad un esercito modernizzato e pieno di fiducia in sé stesso dopo le vittorie in Cecenia, Georgia, Crimea, Siria e Donbass.
Dal palco costruito di fronte al Mausoleo di Lenin, Putin ha salutato missili “ipersonici”, enormi ordigni nucleari mentre nei cieli sopra Mosca sfrecciavano caccia invisibili ai radar – poco contava il fatto che gli osservatori più attenti notassero le crepe che vernici e lustrini dovevano nascondere: il valore simbolico della parata è importante almeno quanto quello delle capacità militare che viene messe in mostra.
Negli anni di Putin, la parata si è trasformata in una rievocazione storica della Seconda guerra mondiale. I carri armati T-34 che guidarono l’avanzata contro Berlino oggi aprono la sfilata, seguiti da battaglioni di soldati in uniformi d’epoca, in un cosciente tentativo del regime di legittimare la sua politica espansionistica con il mito della resistenza al nazismo.
Il guanto di velluto
È stato negli anni di Putin che la parata è diventata la messa solenne del culto della Grande guerra patriottica, la religione laica del regime che costituisce uno dei pilastri centrali della sua altrimenti traballante legittimità. Tra tutti i miti a cui i tecnocrati della sicurezza guidati da Putin hanno cercato di aggrapparsi, questo è uno di quelli di maggior successo, il frutto fortunato di una ricerca a tentoni di un passato che nobilitasse un regime le cui basi ideologiche ed emotive apparivano fragili.
Anche questi eclettici tentativi sono simboleggiati nella Parata della Vittoria. Quando l’orologio della Torre Spasskaja suona le 10 di mattia, i primi a mettersi in moto sono un gruppo di ufficiali con indosso alte uniformi ispirate a quelle della Russia zarista, ma lo stendardo che portano è quello della vittoria nella Grande guerra patriottica: rosso e adornato di una bianca falce e martello.
Se nella profonda Russia rurale l’alleanza tra regime e clero ortodosso è un elemento centrale, il mito della guerra non ha rivali come strumento per la creazione di identità nella russofonia urbana e transnazionale, quella che si estende fin dentro l’Unione europea e con l’emigrazione arriva anche nel Nuovo Mondo.
È stato il nastro nero e arancione di San Giorgio, inventato da una funzionaria di basso rango della macchina statale di propaganda e distribuito per la prima volta durante la parata del 9 maggio del 2005, a diventare il simbolo internazionale della nuova Russia tornata a recitare il ruolo di grande tra le nazioni.
Il nastro, che all’inizio simboleggiava il rispetto per i caduti nella lotta al nazismo, è stato per anni uno dei pochi simboli di successo del soft power russo. Il nero e l’arancione hanno unito in centinaia di manifestazioni in tutto il mondo russi, ucraini, bielorussi e almeno una parte delle minoranze della Federazione russa, che lo hanno usato per onorare i loro caduti nella passata lotta comune.
La diffusione del nastro e del culto associato hanno coinciso con una spettacolare crescita economica della Russia alimentata dal boom delle materie fossili, quando il Pil pro capite aumentava più rapidamente che in Cina.
Crescita economica, ritrovata potenza militare e un mito comune che univa nel ricordo e nel dolore, ma anche nell’orgoglio per la vittoria, sembravano poter riunire una parte significativa dei popoli dell’ex Unione Sovietica in un progetto imperiale e multinazionale.
Ma il progetto è stato condannato dalle sue contraddizioni interne e dall’aggressiva politica estera di Putin. L’annessione della Crimea e la guerra in Donbass hanno segnato un primo momento di frattura di questa nuova koiné. Il 9 maggio 2014 la vasta diaspora russofona si è trovata divisa tra sostenitori della Russia in piazza con i nastri neri e arancioni e i dimostranti a favore dell’Ucraina, per cui quei colori erano diventati il simbolo di un violento espansionismo.
L’invasione dello scorso 24 febbraio è stata l’ultimo chiodo nella bara. L’esercito russo si è rivelato una mal guidata armata Brancaleone e l’immagine positiva della Russia si è eclissata in tutta l’Europa orientale. Persino le comunità russofone all’estero oggi sono disorientate e sfiduciate.
Venerdì, come sempre, la Parata della vittoria inizierà con la banda della guarnigione di San Pietroburgo che intona La guerra sacra, una solenne melodia che sarebbe stata composta di getto due giorni dopo l’inizio dell’invasione nazista. «Per la feccia fascista – recita uno dei versi – costruiremo una robusta bara». Chi è il fascista oggi e chi sarà presto calato in una bara, è una domanda a cui probabilmente al momento preferirebbero non rispondere.
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