Il decreto del governo affronta il problema delle liste d’attesa nella sanità solo come problema di risorse. Mentre una delle questioni principali è che vengono prescritti troppi accertamenti non necessari
Riprendo un discorso che ho lasciato a metà sui tempi d’attesa per gli esami. Commentando il decreto legge pre-elettorale del Governo Meloni sulle liste d’attesa sostenevo, come molti altri, che non avrebbe cambiato in modo percepibile l’attuale situazione di grave disagio. È facilmente prevedibile, dicevo, che il cittadino continuerà ad attendere esami e visite specialistiche per mesi se non sarà in grado di pagarli di tasca sua.
Un decreto, scrivevo ancora, basato sulla ripetizione di norme già note, sottofinanziato, capace di cercare risposte solo nel lavoro straordinario “a gettone” dei medici dipendenti e nel supporto del privato accreditato che già ora produce una quota variabile tra il 30 e il 50 per cento delle prestazioni rimborsate dal Servizio sanitario nazionale.
Aggiungevo che il decreto affronta il problema solo in termini di risorse: per tappare il buco ci vogliono più medici, più infermieri, più soldi. Pur concordando con questa esigenza, lasciavo però alla fine intendere che ci sono altre riflessioni che meritano l’attenzione dei cittadini, dei medici e dei politici. Riflessioni che non risolveranno il problema in tempi brevi, ma potrebbero aiutare a metterlo in una prospettiva più corretta, quantomeno nel medio e lungo termine. Per essere espliciti, è indispensabile inserire nella discussione il fatto che in Italia si fanno troppi esami e troppo spesso inutili.
Tra i primi per Tac e risonanze
Secondo i dati Eurostat, nel 2019 l’Italia era quinta in Europa per numero di apparecchi TAC ogni 100mila abitanti e lo stesso valeva per gli apparecchi di risonanza magnetica. Davanti a noi solo nazioni piccole come Liechtestein, Cipro, Svizzera, Danimarca. Ci teniamo invece alle spalle Germania, Spagna e Francia, quest’ultima di gran lunga. Per quanto riguarda il numero di esami eseguiti (sempre in rapporto alla popolazione), siamo a un’incollatura dalla Germania, mentre ne facciamo quasi il doppio di Francia, Spagna e Olanda. La domanda che scaturisce da questi dati è semplice: sono i medici dei grandi paesi europei a chiedere troppo pochi esami, o siamo noi che ne chiediamo troppi? Buona la seconda.
La Società italiana di radiologia medica stima infatti che circa il 30 per cento degli esami radiologici che vengono richiesti sono inutili. Non negativi nei loro risultati, ma proprio inutili per indirizzare in qualsiasi modo la diagnosi o la terapia del paziente. Esami che non avrebbero dovuto essere richiesti e che lo sono invece stati per la scarsa preparazione dei medici, l’insistenza dei pazienti o per quella che è nota come “medicina difensiva”: meglio fare un esame in più che uno in meno per non essere citati in giudizio. Quanto abbiamo detto per TAC e risonanze vale anche per le gastro e le colonscopie, se è vero che la Società italiana di gastroenterologia ed endoscopia digestiva stima in circa il 30 per cento gli esami non appropriati. Questo su di un numero di esami che varia tra i 30 e i 45 per mille abitanti ogni anno, con differenze significative tra regione e regione. La più virtuosa è la Toscana che si ferma a circa 20 endoscopie ogni mille abitanti, senza peraltro darci ragione di temere che gli abitanti di quella regione siano curati peggio degli altri.
Il circolo vizioso delle visite specialistiche
Passiamo ora alle visite specialistiche. Qui i dati sono più difficili da raccogliere, ma sopperisce l’esperienza di quello che accade tutti i giorni. Migliaia di pazienti con ipertensione lieve vengono inviati dal cardiologo, persone con diabete di tipo secondo (quello più comune che solo in un numero limitato di casi richiede la terapia insulinica) dal diabetologo, grandi anziani con problemi di memoria dal neurologo.
Sono tutte situazioni che potrebbero (e dovrebbero) essere gestite direttamente dal medico curante, ma quel che è più grave è che una volta entrati nel giro degli specialisti, la maggior parte di questi pazienti non ne uscirà più.
Le parole con cui si conclude più frequente una visita specialistica sono infatti: “Tutto bene, continui così, ci rivediamo tra un anno con gli esami”. Questo fa sì che decine o centinaia di migliaia di persone con condizioni di malattia assolutamente stabili ripetano periodicamente accertamenti e visite sostanzialmente inutili invece di essere riaffidate al proprio medico per tornare eventualmente dallo specialista solo nel caso di un aggravamento del quadro clinico o della comparsa di nuovi sintomi.
Tanto per quanto riguarda gli esami radiologici, quanto per le visite ambulatoriali, il meccanismo della ripetizione di esami è particolarmente pernicioso nel privato che ha meno problemi del pubblico ad espandere la propria capacità di offerta con il crescere della domanda. È difficile che una ecografia non si concluda con il consiglio di fare una TAC e una TAC con l’indicazione a fare una risonanza.
Rivedere i pazienti in ambulatorio dopo sei o dodici mesi è infine considerato il minimo della buona pratica clinica (e commerciale) ed è, naturalmente, molto apprezzato da un gran numero di persone, pronte a gettarsi con soddisfazione in questo mercato che spaccia il numero di esami effettuati come surrogato della buona salute. Un po’ come succede per la prescrizione degli antibiotici. Siamo tra i primi consumatori di antibiotici in Europa e paghiamo questa spensieratezza con un tasso di resistenze batteriche tra i più alti del mondo. Siamo infaticabili prescrittori di visite e di esami e paghiamo questa alacrità con tempi di attesa epocali. Anche per chi (e non sono pochi) avrebbe davvero bisogno di poter fare un esame velocemente.
Educazione sanitaria e formazione
Se questo è il problema, o almeno una parte non irrilevante del problema, stupisce che non se ne faccia cenno nel recente documento governativo e che altrettanto poco se ne senta parlare dalle opposizioni. In realtà Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, vi dedica attenzione almeno dal 2016 in collaborazione con le società scientifiche del settore che hanno pubblicato diversi documenti di indirizzo per favorire l’appropriatezza degli esami. Purtroppo pochi li leggono ed è praticamente impossibile non controllare l’operato dei medici in questo ambito.
Eppure i francesi, gli spagnoli, gli olandesi sembrano essere capaci di seguire le regole molto meglio di noi. Forse è una questione di educazione e di cultura (vuoi vedere che anche qui la scuola, altra grande malata del nostro Paese, avrebbe qualcosa da dire…). Forse bisognerebbe insegnare a valutare l’appropriatezza di un esame agli aspiranti medici fin dai primi anni di Università (cosa che in genere nessuno fa) e tornare sul tema in ogni possibile occasione.
Forse bisognerebbe introdurre l’educazione sanitaria nelle scuole di primo e secondo grado, spingendosi un po’ più in là del dire che non bisogna fumare, bere alcolici e usare sostanze (e già questo non sarebbe male!). Forse bisognerebbe, infine, che in ogni studio di medicina generale ci fosse un ecografo e qualcuno capace di usarlo.
Non per fare esami in più, ma per diffondere quello che è il sostituto moderno (e più affidabile) dell’esame clinico, in grado da solo di evitare molti esami radiologici e consulti specialistici. Lo usano cardiologi, nefrologi, urologi, medici d’urgenza, internisti, chirurghi, perché non i medici di famiglia?
Se non si comincerà a lavorare in queste direzioni, non ci sarà aumento di bilancio che potrà tenere il passo con l’invecchiamento della popolazione, l’avanzamento delle tecnologie e l’uso scriteriato degli esami. Il mercato della salute l’avrà vinta e la medicina universalistica farà un ulteriore passo verso l’estinzione.
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