I nuovi documenti sul «Sistema Catanzaro». Una mazzetta da 5mila euro per il magistrato che doveva decidere sul sequestro dei beni del padre della moglie del deputato Furgiuele. Una società confiscata è ancora gestita dai parenti dell’uomo di Salvini
- C’è anche il suocero del deputato leghista calabrese Domenico Furgiuele in questa storia di sentenze comprate, giudici corrotti, avvocati corruttori e mafiosi da scarcerare.
- Si chiama Salvatore Mazzei, ha i beni sotto sequestro e una condanna per estorsione. Un’albergo confiscato alla sua famiglia è gestito in affitto da una società riconducibile a un parente, con l’avallo dei giudici.
- Il «sistema» è vasto, ci sono le trattative sotterranee per aggiustare giudizi e per liberare i beni dai sequestri preventivi ordinati dall’antimafia, ma ci sono anche le cricche delle nomine dei periti, dei consulenti e degli amministratori giudiziari.
C’è anche il suocero del deputato leghista calabrese Domenico Furgiuele nella storia di sentenze comprate, giudici corrotti, avvocati corruttori e mafiosi da scarcerare protagonista del cosiddetto «sistema Catanzaro». La vicenda che lo vede coinvolto va oltre la mazzetta che un giudice ha ammesso di avere ricevuto per risolvere i guai del parente del parlamentare e si innesta nel binario dell’opaca gestione delle amministrazioni giudiziarie delle aziende sequestrate dall’antimafia.
Salvatore Mazzei, il suocero del deputato, ha infatti subito il sequestro delle società, il cui valore stimato è, secondo chi indaga, di oltre 150 milioni di euro. Ma è stato anche condannato in via definitiva per estorsione aggravata dal metodo mafioso. Il commercialista Claudio Antonio Schiavone, centrale in questa trama di giustizia deviata, avrebbe dato a un giudice una mazzetta di 5mila euro per ottenere la nomina a perito della moglie per validare o meno il congelamento dei beni della famiglia Mazzei.
Gole profonde
Insomma il mercato delle sentenze non è la sola caratteristica del «sistema Catanzaro». Di quella «congrega», così l’ha definita un boss pentito della ‘ndrangheta, fatta di magistrati, avvocati e professionisti inseriti in circuiti massonici. La procura di Salerno diretta da Giuseppe Borelli ha già ottenuto la condanna a quattro anni per Marco Petrini, l’ex presidente di sezione della corte d’Appello, che incassava bustarelle persino in ascensore in cambio di verdetti favorevoli.
Le condanne sono arrivate, più lievi, anche per i corruttori: l’avvocato Francesco Saraco e l’ex dirigente sanitario Emilio Santoro. Tuttavia gli inquirenti sono convinti che questi nomi siano solo l’apice di un sistema, che Saraco e Santoro, e solo in parte Petrini, hanno svelato in alcuni verbali di interrogatorio pubblicati da Domani.
Testimonianze che descrivono nei dettagli il ruolo di protagonisti e comparse di questa intrigo giudiziario. Le indagini proseguono, il meccanismo inizia ad affiorare. Sono un corruttore, ha ammesso Saraco, ma anche una vittima del sistema, ha aggiunto.
Al centro del meccanismo di favori, sentenze e nomine, c’era anche il commercialista Schiavone, pure lui coinvolto nella vicenda che ha portato peraltro alla sospensione di Petrini dall’ordine giudiziario.
Il «sistema» è vasto, ci sono le trattative sotterranee per aggiustare giudizi e per liberare i beni dai sequestri preventivi ordinati dall’antimafia. Ma ci sono anche le cricche delle nomine dei periti, dei consulenti e degli amministratori giudiziari. Incarichi questi ultimi che possono valere parcelle d’oro, soprattutto se un professionista scelto su base fiduciaria dal giudice che decreta la misura del sequestro o della confisca, ne accumula uno dietro l’altro.
Ci sono provvedimenti che hanno riguardato holding e compagini societarie per centinaia di milioni di euro. «Chi amministra un bene sottratto alle mafie ha una responsabilità sociale doppia rispetto a qualunque altro mestiere o incarico», dice un professionista del settore, «perché deve garantire la continuità aziendale nella legalità recidendo ogni ramo che collega l’impresa alla criminalità organizzata e garantendo ai creditori veri e puliti il pagamento, che prima non avveniva».
Il suocero del deputato
In questo contesto rientra una storia mai raccontata, scoperta da Domani grazie a un esposto inviato in procura antimafia a Catanzaro da un creditore di una delle aziende sequestrate all’imprenditore Mazzei, il suocero del politico della Lega di Salvini Furgiuele. Nell’inchiesta della procura di Salerno sulle toghe sporche il nome dell’avvocato di Mazzei, Francesco Gambardella, è citato più volte per i suoi rapporti con alcuni giudici. Tra questi c’è il magistrato che presiede la sezione incaricata di gestire i beni di Mazzei.
La storia a cui si fa riferimento nella lettera-denuncia inviata agli uffici giudiziari di Catanzaro riguarda un’hotel di Lamezia: l’Aerhotel Phelipe, momentaneamente chiuso per Covid-19. Prima che l’antimafia lo sequestrasse era della famiglia di Salvatore Mazzei, il socio era il figlio Armando, cognato di Domenico Furgiuele, il deputato della Lega e già coordinatore del partito in Calabria.
Un fatto accertato lega Furgiuele all’hotel. La struttura ha ospitato i killer della ’ndrangheta autori dell’omicidio di Davide Fortuna avvenuto sulla spiaggia affollata di Vibo Marina sotto gli occhi dei figli. Sentito come testimone, il parlamentare leghista ha spiegato che si era fidato di una terza persona che gli aveva chiesto la cortesia di ospitare degli amici. Insomma non poteva immaginare che quelli erano dei killer.
Nel 2015 qualche tempo dopo che il tribunale aveva stabilito la confisca di primo grado dell’Aerhotel di Mazzei, l’amministratore giudiziario dell’epoca, su incarico dell’ufficio giudiziario competente, ha firmato il contratto d’affitto con il quale autorizzava una piccola ditta, Games gestioni srl fondata soltanto pochi mesi prima della firma, a gestire l’albergo ex Mazzei. Fin qui nulla di strano.
L’anomalia è però nel socio della Games: il marito della sorella di Armando Mazzei. In pratica, una volta confiscato, l’hotel è rimasto nella disponibilità di famiglia. E, si legge nell’atto, sono stati venduti alla nuova società anche tutti «gli arredi e i suppellettili». «Non c’erano alternative per mantenere l’occupazione, e poi la società paga un affitto di 5.500 euro al mese, non c’è nulla di illegale, è stata una valutazione fatta dal precedente amministratore e avallata dal tribunale di prevenzione», dicono dall’entourage di chi amministra il bene.
In quel periodo si era da poco insediato il giudice Giuseppe Valea, nominato presidente della seconda sezione penale Riesame e misure di prevenzione, cioè l’ufficio che si occupa di valutare i ricorsi contro gli arresti e i sequestri dei beni. L’esposto inviato dal creditore in cui si segnala il curioso passaggio del bene sequestrato a parenti della stessa famiglia è indirizzato anche a Valea in qualità di «giudice delegato».
C’è un giudice
Nella prima puntata sul «Sistema Catanzaro» pubblicata da Domani avevamo svelato i rapporti tra il giudice Valea e l’avvocato Salvatore Staiano: «Nell’anno 2018 Schiavone mi riferì che, grazie a Staiano, aveva ricevuto incarichi da Valea».
Una coppia, avvocato e giudice, sul quale si sono concentrati i magistrati di Salerno, soprattutto perché nei verbali dei protagonisti della vicenda Petrini i loro nomi ricorrono spesso. «In particolare Staiano, stando a quanto riferitomi da Schiavone aveva ottimi rapporti con Valea, avendo anche ricevuto dallo stesso diversi incarichi... Sono a conoscenza che Staiano era stato difensore del Valea in un procedimento che aveva avuto a Salerno (finito con un’assoluzione ndr)», si legge in uno dei verbali dell’inchiesta.
In un altro interrogatorio Santoro aggiunge: «Sia Schiavone che Staiano conoscevano Valea, Staiano molto più di Schiavone. Anche l’avvocato Gambardella conosceva il dottor Valea, come ho appreso da Petrini. Anche Gambardella aveva analoghi rapporti con il giudice Valea».
A difendere l’imprenditore Mazzei per un lungo periodo, anche nel procedimento per riottenere i beni sequestrati, è stato l’avvocato Francesco Gambardella, imparentato con la moglie del giudice corrotto Petrini. Quest’ultimo avrebbe dovuto giudicare nel processo d’appello il sequestro dei beni a Mazzei. Dopo il suo arresto, il pool di legali, su richiesta della famiglia Mazzei (inclusa Stefania, moglie del deputato leghista), aveva chiesto lo spostamento del processo in altra sede per «fondati motivi di sospetto sull’imparzialità dei giudici». La Cassazione ha rigettato la richiesta, dunque Gambardella dovrà difenderli a Catanzaro.
«La legge sono io»
La parabola del patrimonio aziendale del suocero del deputato della Lega incrocia, quindi, i destini dei protagonisti dell’inchiesta sulla corruzione giudiziaria coordinata dalla procura di Salerno. «Schiavone, qualche mese prima delle elezioni politiche (quelle in cui Furgiuele verrà eletto in parlamento), mi prospettò la possibilità di guadagnare dei soldi nella procedura sul sequestro all’imprenditore Mazzei», rivela ai pm salernitani Santoro, l’ex dirigente Asl coinvolto nella corruzione del giudice Petrini.
Dice Santoro: «Schiavone voleva che io intervenissi su Petrini affinché Mazzei ottenesse il dissequestro dei beni. Sempre Schiavone mi disse che lui era consulente dell’imprenditore Mazzei e che gli aveva redatto una relazione di consulenza che attestava che non vi era sbilanciamento tra i beni posseduti dal Mazzei, le sue entrate legittime e le uscite. Circa quattro mesi dopo seppi, credo da Saraco (socio in affari dello stesso Schiavone), che nel procedimento riguardante Mazzei, il presidente Petrini aveva nominato come perito contabile la moglie di Schiavone. Dissi a Schiavone e Petrini che se si fosse venuto a scoprire vi sarebbero stati grossi problemi». La risposta del giudice data a Santoro è da film: «La legge sono io!».
Nomine del «sistema»
Santoro in uno dei suoi interrogatori alla procura di Salerno ricostruisce la genesi del suo rapporto con il giudice Petrini: «Mi chiese se conoscessi qualche professionista che fosse disponibile a fare consulenze giudiziarie così avrebbe potuto liquidare al consulente delle parcelle sulle quali avrei potuto percepire una quota. Io conoscevo il commercialista Schiavone, al quale spiegai la proposta di Petrini. Schiavone poi cominciò ad avere anche rapporti autonomi e iniziò a fare da tramite tra il magistrato e terze persone che volevano ottenere la restituzione dei beni».
In pratica Schiavone, sostiene il testimone, portava in dote la proposta «corruttiva» al giudice e otteneva la nomina di consulente tecnico da chi lo aveva ingaggiato o direttamente di perito da Petrini. In cambio, sul piatto, c’erano migliaia di euro, che consegnava al giudice per provvedimenti di favore.
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