- L’Autorità portuale di Taranto ha intimato a Webuild di avviare il dragaggio del porto entro due mesi, malgrado il rischio ecologico messo agli atti dalla commissione parlamentare di inchiesta sul ciclo dei rifiuti
- Il «rischio ambientale» e «di sicurezza», come scritto nella relazione della commissione di inchiesta, deriva dall’erronea esecuzione della vasca che dovrebbe isolare i fanghi.
- Ciononostante non si è mai considerata la rescissione e anzi all’appaltatore sono stati riconosciute molte delle sue pretese. La commissione bicamerale ha ventilato l’interessamento della magistratura. A ricorrervi è stata però solo l’Autorità portuale, che ha querelato la stampa che ne ha dato conto
Il rischio ecologico che pende sul mare di Taranto e che questo giornale ha denunciato nei mesi scorsi è finito agli atti del parlamento. E non è un rischio da poco.
In ballo ci sono 2,3 milioni di metri cubi di fanghi da dragare nelle opere di scavo del porto che dovrebbero essere isolati perché contenenti sostanze tossiche, attraverso una vasca di colmata, cioè un grande bacino impermeabilizzato posto a bordo di una banchina.
La tenuta della vasca, realizzata da Astaldi, ora Partecipazioni Italia (gruppo WeBuild), però, era è stata messa in dubbio, a causa di una non conformità fra progetto ed esecuzione dei lavori rilevata dal responsabile amministrativo del procedimento, dalla direzione lavori e anche dalla commissione di collaudo.
Il problema, seppur superficialmente, ha dovuto esser menzionato dalla stazione appaltante, l’Autorità portuale, nella richiesta di rinnovo della valutazione di impatto ambientale.
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«Grossi rischi di tenuta»
Nella relazione appena depositata in Senato dalla commissione bicamerale di inchiesta sul ciclo dei rifiuti, si legge come il collaudatore dell’opera abbia «informato la commissione che l’opera si stava realizzando in grave difformità rispetto al progetto approvato, e che ciò avrebbe comportato grossi rischi di tenuta dei fanghi all’interno della colmata».
Il rischio, secondo il documento, è «sia di sicurezza e sia di inquinamento per la fuoruscita dei fanghi». I membri della commissione sottolineano la necessità di formalizzare «le dichiarazioni spontanee del collaudatore» e che «se del caso, data la gravità della situazione, la magistratura debba esserne interessata».
L’autorità portuale tira dritto
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A rivolgersi alla magistratura però è stato finora solo il presidente del porto, Sergio Prete, al timone da oltre un decennio, che non ha mai risposto alle nostre domande ma ha querelato chi scrive per gli articoli dei mesi passati.
Pochi giorni fa Prete ha inoltre intimato a Partecipazioni Italia di avviare entro due mesi il dragaggio del fondale, finora mai cominciato, nonostante tutti i lavori dovessero essere conclusi addirittura nel 2016 e il presidente del porto avesse poteri commissariali.
Nel 2014 l’Autorità portuale aveva assunto l’impegno di approfondire i fondali del porto a -16,5 metri a favore dell’allora concessionario del terminal container di Taranto, una joint venture sinotaiwanese fra i colossi Evergreen e Hutchison. Astaldi vinse l’appalto, ribassando da 72 a circa 50 milioni di euro l’importo a base di gara, per la realizzazione della vasca di colmata che avrebbe dovuto contenere i fanghi. Il contratto fu firmato a febbraio 2015 e prevedeva meno di due anni di lavori.
Così, nel 2016 quando i due colossi decisero di abbandonare Taranto, ebbero gioco facile a recedere dal contratto con lo stato e a lasciare in carico alla collettività i 500 dipendenti senza pagare dazio. A complicare il quadro, intanto, arrivavano una serie crescente di difficoltà tecniche e la crisi finanziaria dell’appaltatore.
A dispetto di tutto tuttavia, anche della possibilità di recedere che secondo indiscrezioni il responsabile amministrativo del procedimento avrebbe nel tempo ventilato, il presidente del porto Prete ha sempre tirato dritto, confermando la fiducia in Astaldi. L’azienda ha iniziato i lavori alla vasca di colmata e intanto è finita nell’orbita WeBuild col nome di Partecipazioni Italia.
Nel 2021 il decreto Semplificazioni ha offerto l’opportunità di nominare un collegio consultivo tecnico, chiamato a dirimere le controversie tra appaltanti e appaltatori.
Il collegio, della cui composizione Domani ha scritto nei mesi scorsi, ha finora abbuonato all’appaltatore 6 milioni di euro di penali, concesso 1,8 milioni di rimborsi per il caro materiali normato dal decreto Sostegni-bis (malgrado le lavorazioni afferenti fossero precedenti al 2021) e riconosciuto 12 milioni di euro di riserve che l’ente ha già dovuto pagare, sebbene lo stesso collegio avesse imposto la sottoscrizione di un atto transattivo in base a cui il grosso del dragaggio dei fondali avrebbe dovuto essere effettuato entro fine 2021 e il resto completato entro fine giugno 2022.
Se la vasca di colmata è stata nel mentre terminata, gli scavi non sono nemmeno cominciati. Dopo la «scadenza della validità del decreto Via non tempestivamente oggetto di istanza di rinnovo» e la conseguente sospensione dei lavori fino a marzo 2022, a osteggiare l’avvio delle operazioni sarebbero intervenute da ultimo la perplessità della Capitaneria in merito alle modalità tecniche prescelte e la richiesta di Arpa Puglia di procedere a un approfondimento delle analisi sulla natura dei fanghi.
La domanda principale cui Prete non risponde è perché vuole correre un rischio per cui il parlamento ipotizza l’intervento della magistratura.
Forse ai turchi del gruppo Yildirim subentrati ai cinesi è stata concessa un’analoga clausola suicida legata allo scavo dei fondali che fa temere che possano lasciare Taranto? O ci sono altri motivi per non interrompere un appalto in ritardo di 6 anni e innescare la bomba ecologica ora assurta anche alla dignità di una relazione parlamentare?
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