In una stessa serata di Champions sono arrivate le sconfitte di Real Madrid e Manchester City, entrambe cadute davanti a squadre allenate da portoghesi, Paulo Fonseca e Rubén Amorim, prossimo a trasferirsi allo United. Un paese che faceva ricorso a tecnici stranieri ora esporta menti di calcio. Che cosa hanno in comune sul piano tattico e sul piano culturale. Tutti figli dell’innovatore Artur Jorge
Il segreto, se un segreto c’è, è che hanno letto bene. Letto, sì; non di tattiche, allenamenti, situazioni di gioco, o meglio: anche di quelle, certo, ma nascere in Portogallo significa essere immersi in un mondo che è letterario di per sé.
L’epica di Camões, i drammi storici di Garrett, la moderna proteiformità di Pessoa, il fraseggio anticonvenzionale di Saramago: è una questione di influssi, di ambiente. E la letteratura è fascino, un’aura che si trasferisce sul campo di pallone, in un Paese in cui c’è una squadra (il Gil Vicente) che porta il nome di un drammaturgo vissuto a cavallo tra il XV e il XVI secolo; difficile non subirlo, quel fascino, quando lo hai scoperto, e pazienza se poi l’innamoramento finisce, perché restano i ricordi.
Per dire: potrà magari finire malissimo tra Paulo Fonseca e il Milan, chissà, però il 3-1 dei rossoneri al Bernabéu contro i campioni di tutto, contro un organico che trasuda opulenza e mostra l’arroganza di chi fa il broncio se non vince un premio individuale pur avendo vinto tutto il resto, beh, si diceva, quel 3-1 resterà. E Rúben Amorim, accidenti, che storia la sua sulla panchina dello Sporting, e che finale magistrale: 4-1 al Manchester City, a proposito di plutocrati del calcio, un regalo alla squadra che lo ha fatto grande, ma anche un godibilissimo presente a quella che lo accoglierà, a Manchester, sul lato United. Obrigado, Rúben, lo hanno salutato tutti così, in una terra che dice grazie utilizzando un termine che presuppone un obbligo, quello di ricambiare.
Sanno farsi amare, i tecnici portoghesi, e sanno anche il fatto loro, forse proprio perché hanno letto e sanno stare al mondo, navigatori quali erano e cosmopoliti quali sono. Siamo all’occaso dell’era Mourinho, oggi applaudiamo Fonseca e Amorim, aspettiamo al salto in una grande d’Europa Sergio Conceição, conosciamo Paulo Sousa – appunto: uno che avrebbe voluto fare il maestro, e non ha mai fatto mistero di essersi appassionato a Pessoa – e abbiamo visto Jorge Jesus, Jardim, Marco Silva, Nuno Espirito Santo, abbiamo creduto nel giovane Vilas-Boas: tutti si sono fatti notare, qualcuno ha vinto tantissimo, altri meno, ma le loro carriere ci raccontano soprattutto il loro animo da descobridores: Inghilterra, Francia, Italia, Ungheria, Svizzera, Israele, Polonia, Arabia Saudita, Brasile, Spagna, perché comunque loro convincono, e convince il loro calcio. Sì: è una nazione che esporta allenatori, il Portogallo. che in tutto questo incida anche Jorge Mendes, in qualche misura, è chiaro, ma c’è molto di più.
I punti in comune
Eppure è difficile dire se esista una scuola portoghese, in senso stretto, perché gli approcci, da tecnico a tecnico, sono molto differenti: Mourinho e Amorim non hanno molti punti di contatto, Espirito Santo deve parecchio a Jesualdo Ferreira e non è uguale agli altri due, ma ci sono almeno un paio di punti in comune a tanti.
Il primo è l’applicazione in campo, dall’allenamento alle partite, di un concetto di studio accademico – anche qui: una lettura, ma tecnica – che è quello della periodizzazione tattica, sviluppata da Vitor Frade presso la facoltà di Scienze Motorie dell’Università di Porto, ormai una quarantina di anni fa, secondo cui si parte da un modello di gioco da interiorizzare, ma attenzione: la tattica – era il centro della teoria di Frade – non è una dimensione fisica, non è tecnica, non è psicologica, ma ha bisogno di tutte e tre per manifestarsi, ed ecco perché sapere solo di calcio significa non sapere nulla di calcio.
Carlos Queiroz (già collaboratore di Alex Ferguson, allenatore del Real Madrid e ct della nazionale) ha fatto della periodizzazione tattica il suo credo, ed è diventato un punto di riferimento comune per tanti, a livello di insegnamento.
Il secondo è una questione appunto culturale, figlia di un ambiente che rende adattabili e curiosi, a studiare le lingue, ad accettare la sfida fuori dalla comfort zone, e qui c’è un altro nume tutelare da citare: Artur Jorge, che nel ricordo di tanti è colui che condusse il Porto alla Coppa dei Campioni 1987, ma resta una figura di spicco per essere stato un pioniere. Con lui, infatti, il calcio portoghese ha capito che poteva fidarsi dei suoi allenatori.
Artur Jorge, l’innovatore
Non era sempre stato così, perché a lungo i club lusitani avevano cercato le avanguardie altrove. Il Benfica era diventato leggenda con l’ungherese Béla Guttman e aveva avuto anche un altro magiaro molto apprezzato, Lajos Baróti, il Porto si era spesso affidato a tecnici sudamericani e brasiliani in particolare, da Dorival Yustrich a Flavio Costa, passando per Otto Glória, uno che si era seduto sulle panchine di tutte e tre le grandi di Portogallo, così come pure il cileno Fernando Riera.
E poi, senza tornare ai tempi della scuola danubiana (giusto due nomi: József Szabó e Dezsó Gencsy), negli anni Settanta e Ottanta si possono ricordare gli jugoslavi Milorad Pavic e Bosko Stankovic, gli inglesi Jimmy Hagan e John Mortimore, l’austriaco Hermann Stessl e Sven-Gӧran Eriksson, svedese cosmopolita, innovatore e libertino, che in Portogallo, al Benfica, andò prima di cominciare la sua lunga storia d’amore con l’Italia.
Poi è arrivato uno, appunto, che aveva letto bene: Artur Jorge. Ex calciatore (fu bomber di Académica Coimbra e Benfica), primo presidente del sindacato calciatori portoghese, laureato in filologia germanica a Coimbra – un calciatore studente, simbolo di un club di nascita universitaria – e diplomatosi poi alla Scuola universitaria tedesca per la Cultura fisica, a Lipsia, Germania Democratica. Divenne collaboratore di José Maria Pedroto, uno dei pochi allenatori portoghesi di grido in patria. Aveva letto, Jorge, aveva studiato, e aveva pure scritto.
Allenava la Portimonense, in Algarve, quando pubblicò Vértice da Água, un libro di poesie che ebbe un certo successo, e aveva l’acqua, nella sua complessa semplicità, come protagonista. Ne scrisse allora anche il Jornal de Letras, e a intervistarlo fu Clara Ferreira Alves, giornalista e scrittrice che avrebbe avuto ella stessa grande successo.
In quel colloquio Artur Jorge diede una risposta illuminante: «Leggo più poesia che narrativa, perché la poesia permette una lettura parziale, puntuale, sempre rinnovata. La poesia è anche questo: saper leggere le stesse cose in modi diversi. C’è sempre la possibilità di leggere in mille modi diversi ciò che è già stato letto». Parlando di poesia, si può ritrovare anche una chiave di lettura della via portoghese al pallone.
Jorge, morto lo scorso febbraio, conosceva sei lingue, fu tra i primi tecnici portoghesi a essere chiamati all’estero (nel ricco progetto del Matra Racing Paris) e sarebbe stato, sempre a Parigi ma con il Psg, il primo allenatore lusitano a vincere il titolo in uno dei cinque maggiori campionati europei, il secondo in assoluto per il club che interruppe così il dominio del Marsiglia.
Ruppe un argine, e da allora i tecnici portoghesi iniziarono a essere apprezzati anche fuori, e addirittura, a un certo punto, iniziarono a essere chiamati persino sulle panchine di alcune grandi squadre del Brasile, spesso calcisticamente autosufficiente, con Jorge Jesus a vincere tutto in due anni al Flamengo, poi Jesualdo Ferreira assunto al Santos e Bruno Lage al Botafogo, lo stesso Sousa al Flamengo, e prim’ancora Paulo Bento al Cruzeiro.
La via oggi è aperta e bidirezionale, e se ormai ai portoghesi in panchina siamo abituati, è perché il campo è solo una parte del loro mondo, e quello fuori ci affascina. Ma entrambi li riempiono benissimo.
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