- Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un aumento generalizzato delle porzioni di cibo: non promosso dalla nostra domanda, ma dall’offerta, perché per le aziende conviene offrire quantità più grandi di cibo
- Ora però le aziende, per evitare i rincari innescati dalla guerra in Ucraina, a parità di prezzo devono rimpicciolire le quantità
- Un professore francese propone una via per aiutarle a ridurre le porzioni senza ridurre la clientela: puntare sull’appagamento anziché sul rendimento (della spesa)
Anche se il problema è sotto gli occhi di tutti, è difficile comprenderne le proporzioni.
Negli ultimi due decenni la pizza surgelata standard è passata da 200 grammi a più di 350, mentre il pacchetto medio di patatine è cresciuto da 100 a 150 gr. Se nel 2023 mangiassimo ogni giorno un sandwich assumeremmo in un anno 7500 calorie in più rispetto al 2014, quando le due fette di pane pesavano 35 grammi invece che 40 come oggi.
E se andiamo ancora più indietro la differenza aumenta: negli anni Cinquanta in Usa un hamburger medio pesava 110 grammi; ora è circa il triplo, 340 gr. Allora una bottiglietta “normale” di Coca Cola equivaleva a 19 cl, contro i 33 della dose per bambini di molti fast food di oggi.
Domanda e offerta
A promuovere questo aumento generalizzato nel consumo di cibo è stata l’offerta, non la nostra domanda. Perché, quando si tratta del nostro appetito, sono gli occhi e non lo stomaco a segnare il limite: più grandi sono le quantità che troviamo nel piatto, più ne mangiamo, a prescindere dalla sazietà. Questo effetto vale anche per gli infanti: si pensava che i bambini molto piccoli fossero guidati più da stimoli interni che esterni, ossia dalla fame, finché uno studio del 2015 ha dimostrato che anche loro rispondono a porzioni abbondanti mangiando di più.
Non è del tutto certo quando l’industria alimentare ha iniziato a dopare le quantità, mentre è sicuro invece che, dagli anni Settanta in poi, grazie alla combinazione tra politiche agricole, innovazione tecnologica, nuovi stili di vita e migliorati processi di trasformazione e conservazione degli alimenti, il cibo è diventato sempre più economico. Altrettanto quindi lo è diventato offrire porzioni giganti, i cui costi marginali sono praticamente identici alle taglie regular, ma che danno al consumatore l’impressione di fare un ottimo affare. Uno studio di Rachel Close e Dale Schoeller pubblicato nel 2006 sul Journal of the American College of Nutrition ha stimato che con le mega porzioni assumere un +73 per cento di calorie costa in media solo un +17 per cento al consumatore, mentre chi sceglie le taglie mini è penalizzato dai rivenditori, che gli fanno pagare prezzi molto più elevati che agli acquirenti insaziabili.
In compenso però il primo compratore si assume dei costi finanziari nascosti: per ogni 100 calorie che una persona mangia oltre il suo fabbisogno quotidiano, il costo che sostiene in termini di cibo che si abitua a consumare, cure mediche e consumo supplementare di benzina va da 48 centesimi a quasi due dollari oltre il costo esplicito, spingendo il prezzo del pasto a prezzo stracciato verso l’alto in una percentuale tra il 91 e il 123 per cento.
Questione di percezioni
Il problema è che l’epidemia di obesità che si registra in tutti i paesi ricchi poggia, oltre che sulla ghiottoneria, su due altri fattori: la normalizzazione delle taglie “giganti” e la nostra imprecisione a stimare le quantità. La sola esistenza delle porzioni XXL, spiega Pierre Chandon, Professore di Marketing e direttore del Behavioural Lab dell’Insead-Sorbonne di Parigi, ridefinisce il concetto di quantità accettabile, anche se non la scegliamo.
I consumatori, infatti, come attestato da vari studi, si attestano prevalentemente nella fascia media escludendo gli estremi. Ma se alla triade di opzioni small, medium e large aggiungiamo XL e XXL, ecco che la large, che è la misura di mezzo, acquista appeal per coloro che magari prima avrebbero optato per la medium. Funziona anche con le stoviglie: Aydinoglu e Krishna (2011) hanno scoperto che la percezione dei partecipanti di quanto hanno mangiato è significativamente inferiore quando il loro piatto viene etichettato come “medio”, rispetto a quando lo stesso piatto è etichettato come “grande”, anche quando la quantità di cibo in realtà è la stessa.
Questa difficoltà a stimare il contenuto di un piatto (o di una confezione) non è solo colpa del nome delle porzioni, ma anche del fatto che il nostro occhio non è portato per la geometria. Se aumentiamo le tre dimensioni di un oggetto (altezza, larghezza e profondità), si moltiplica il suo volume reale (che è il risultato della moltiplicazione delle tre dimensioni): invece il nostro occhio calcola il nuovo volume sommando le dimensioni anziché moltiplicarle. Il che significa, precisa il citato Chandon, che mentre un aumento del 26 per cento in altezza, larghezza e profondità di un oggetto raddoppia il volume dell'oggetto (1,26 x 1,26 x 1,26 = 2), il volume che vediamo percepito aumenta solo del 78 per cento perché il nostro occhio somma (26 per cento + 26 per cento + 26 per cento = 78 per cento).
Al contrario, le porzioni piccole tendono ad essere stimate con precisione, forse perché, ipotizza il docente, in questo caso la nostra vista ha due misure di riferimento per regolarsi: la porzione precedente e lo zero.
E sta qui, in questa accuratezza nel notare i cali, la maggiore difficoltà incontrata attualmente dalle aziende che, per evitare i rincari innescati dalla guerra in Ucraina, a parità di prezzo rimpiccioliscono le quantità. Considerando l’abnorme aumento delle porzioni negli anni, la cosiddetta shrinkflation non può che farci bene. Tuttavia, i consumatori sono chiaramente indispettiti dall’idea di pagare di più per meno, quando in precedenza sono convinti di aver pagato di meno per più cibo.
Appagamento vs rendimento
Chandon è convinto che, per aiutare le aziende a ridurre le porzioni senza ridurre la clientela, una strada ci sia: puntare sull’appagamento anziché sul rendimento (della spesa). Così, nel suo laboratorio di nudging (spinta gentile) “epicureo”, ha elaborato una serie di tecniche utili alle imprese: la prima è semplicemente la reintroduzione delle taglie small di un tempo, ma ribattezzandole in modo seduttivo, come porzioni “gourmet” o top selection. Un secondo trucco sta nel modificare la forma delle confezioni o nello sminuzzare la quantità abituale di un alimento in più pezzi, per moltiplicare visivamente il suo ingombro e al contempo tagliare fino al 20 per cento del prodotto senza che l’acquirente lo noti. Il terzo strumento, adatto in particolare alla ristorazione, consiste nell’enfatizzare l’aspetto sensoriale di quanto viene offerto per indurre a un minore consumo.
Mettendo a confronto in un locale di Lione le esperienze generate da tre menu a prezzo fisso, di cui uno indicato come “all you can eat”, uno corredato di informazioni nutrizionali e uno definito “epicureo”, ossia descritto con una maggiore attenzione alla sensorialità degli alimenti (con pietanze come «pasta frolla croccante coperta di una crema al limone elegante e leggermente acidula») il professore è riuscito a far sentire i clienti affamati del terzo tipo più soddisfatti rispetto alle altre due categorie, aumentando il valore monetario percepito del pasto solamente grazie alle relative descrizioni.
È la dimostrazione che, se opportunamente concepita, la shrinkflation non è una condanna né per le aziende né per le persone, che accettano di pagare di più per mangiare meno. Perché quando, oltre alla quantità, entra in gioco il piacere di mangiare, gli acquirenti ben sopportano l’applicazione di due pesi e due misure.
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