È attesa per oggi, lunedì 20 settembre, la sentenza del maxiprocesso al clan Casamonica di Roma. I giudici sono entrati in camera di consiglio e la decisione arriverà verso le 15.

Sono una quarantina gli imputati alla sbarra, per i quali l’accusa chiede complessivamente oltre 600 anni di carcere: sono accusati a vario titolo di reati che vanno dall’associazione mafiosa al traffico di droga, spaccio, estorsione, usura e detenzione illegale di armi.

L’unica vittima che aveva denunciato

L’indagine mette sotto accusa solo l’arcipelago del clan egemone in vicolo di Porta Furba, in zona Tuscolana. Ci sono 25 persone, tra cui il noto conduttore radiofonico Marco Baldini, vittime di usura ed estorsione e nessuna di queste ha presentato denuncia. Neanche chi era stato massacrato di botte. Si tratta di F.S., che ha presentato denuncia solo perché convocato dal commissario.

L’unica vittima che ha denunciato non ci sarà perché è morto nell’aprile dello scorso anno. Si chiamava Ernesto Sanità. Aveva la voce rauca, il corpo sfiancato dalla battaglia che conduceva da oltre un decennio. «Che stai facendo, ti stai occupando di loro? La mia storia la devi raccontare per forza. Scrivi una cosa, subito. Io non ho niente contro i Casamonica, ma quando sono entrati nella mia vita non ho abbassato la testa perché io non dovevo pagare le colpe di mio figlio», diceva Sanità.

Il clan gli aveva tolto la casa per un presunto debito del figlio, Giovanni, morto anni fa in una misteriosa rissa. Sanità ha denunciato tutto alla polizia e si è rivolto all’Ater, la società pubblica che gestisce le case popolari, per cacciare i Casamonica. È andato perfino a riprendersi casa da solo, ma i membri del clan dopo averlo minacciato di morte hanno occupato di nuovo l’immobile trasformandolo nella loro alcova. Non voleva fare l’eroe, ma solo tornare ad abitare nella casa popolare di cui era legittimo assegnatario.

La sua denuncia è andata persa e anni dopo ha raccontato tutto ai carabinieri. Dopo un decennio e dopo la retata delle forze dell’ordine contro i suoi estorsori, è rientrato nella sua casa. Era il 2018, due anni prima di morire. Nella capitale di uno dei paesi del G8, un signore settantenne ha dormito sotto i ponti, abbandonato dallo stato, perché un clan disponeva delle vite delle persone, delle case, del loro presente e del loro futuro. E chi denunciava veniva ignorato.

«Voglio morì, non ce la faccio più», diceva Sanità. Oggi sarebbe stato in aula ad ascoltare il verdetto della corte. Perché lui non voleva sfidare nessuno ma di nessuno aveva paura, neanche dei Casamonica. Unico resistente nel processo dove ha vinto l’omertà.

Le richieste del pm

Il verdetto del processo, che è durato due anni, è nelle mani dalla decima sezione del tribunale di Roma. Le pene più alte, 30 anni di carcere, sono state chieste dalla procura per Giuseppe Casamonica, considerato il capo famiglia di Porta Furba, e per i fratelli Salvatore, Pasquale e Massimiliano.

Finora l’associazione mafiosa a Roma è stata riconosciuta solo per il clan Spada, attivo a Ostia. Per la celebre inchiesta contro Salvatore Buzzi e Massimo Carminati la tesi è stata invece respinta dalla Cassazione. La sentenza di oggi deciderà se i Casamonica sono assimilabili a camorra, ’ndrangheta e mafia o sono solo criminali di strada.

La difesa dei Casamonica

L’avvocato Mario Giraldi è stato il legale storico di Vittorio Casamonica, il capostipite omaggiato con un funerale, nell’agosto 2015, che fece il giro del mondo. Nel processo a carico del clan, Giraldi difende quattro imputati: Luciano, Lauretta, Giovannina e Consiglio (detto Simone) Casamonica.

Il processo che si celebra davanti al tribunale di Roma vede alla sbarra 44 imputati, per 14 la procura di Roma chiede la condanna anche per mafia. L’obiettivo degli avvocati è cancellare l’accusa di mafia e ottenere il riconoscimento dell’associazione a delinquere semplice: sarebbe la sconfitta della procura dopo il caso analogo di mafia capitale, derubricata a mazzetta capitale.

«Si segue la scia del vecchio procuratore Giuseppe Pignatone, che oggi è finito a fare il presidente del tribunale del Vaticano», dice Giraldi a Domani. Ma perché non regge l’accusa di mafia? «Sono episodi scollegati, la maggior parte dei Casamonica non si conoscono tra loro, si sono addirittura denunciati. Hanno una cosa in comune: trasgrediscono le regole».

Estorsioni, spaccio di droga, persone offese reticenti: tutto questo non è mafia? «In questo processo persone intimidite che cercano di dimenticare non ce ne sono. Si tratta di associazione a delinquere, anzi neanche associazione semplice, sono solo persone dedite al malaffare», dice Giraldi.

La sentenza per le 15

L’ultima udienza del processo a carico del clan Casamonica si è aperta, come di rito, con l’appello svolto dalla presidente del collegio Antonella Capri. Nell’aula bunker del carcere di Rebibbia, a Roma, sono 44 gli imputati nel maxi processo.

I vertici del clan sono tutti collegati in videoconferenza dagli istituti di pena dove sono reclusi. Alla sbarra ci sono anche imprenditori, un maresciallo della guardia di finanza e complici. In quindici, i vertici del clan, rispondono di associazione mafiosa.

Il tribunale di Roma dovrà stabilire se i Casamonica sono un clan di mafia come camorra, ’ndrangheta, società foggiana e cosa nostra oppure sono criminalità comune. Questo verdetto è fondamentale perché condiziona altri pronunciamenti, nuove indagini e processi già istruiti.

In aula sono presenti i pubblici ministeri della procura di Roma Giovanni Musarò e Stefano Luciani. Tra gli avvocati Giosuè Naso, Ippolita Naso e Mario Girardi, che difendono i vertici dei Casamonica.

Le feste con i calciatori

Tra i 14 imputati per i quali è stata chiesta la condanna per mafia, c’è anche Giuseppe Casamonica, detto bitalo. Per lui la procura ha chiesto 30 di carcere, è detenuto al 41 bis. Quando è stato arrestato, nel 2019, nel feudo del clan in vicolo di Porta Furba, aveva un rolex al polso, l’unica cosa di cui gli importava mentre lo portavano in carcere dopo anni di impunità.

Nel 2017, il tribunale di sorveglianza lo aveva mandato in comunità trattandolo alla stregua di un tossicodipendente; due anni dopo viene arrestato e indicato come boss di vertice della famiglia criminale. La sua storia giudiziaria racconta di uno stato che ha ignorato il fenomeno per anni.

Giuseppe Casamonica, durante il processo, ha reso dichiarazioni spontanee. Ha ricordato il suo lavoro in una società di vigilanza, ma non solo. Bitalo ha raccontato le feste alle quali avrebbe partecipato: feste organizzate per sportivi famosi, soggetti non coinvolti in nessun modo nel procedimento. Un racconto che chiarisce quanto i Casamonica abbiano avuto rapporti con il mondo di sotto che con quello di sopra.

«Io lavoravo in quel locale (Smart club) occupandomi della sicurezza, ero stato scelto dai gestori. Vucinic, all’epoca giocatore di serie A, festeggiò il suo compleanno con Totti, De Rossi e tutta la squadra della Roma. Spese 5.900 euro di champagne», ha detto in aula.

«Io conoscevo non solo Tamara Pisnoli, all’epoca moglie di De Rossi, con cui ho avuto un rapporto sentimentale nel 2008. Avevo amicizia con altre ragazze, mogli dei calciatori, con una valletta dell’Eredità, amici maschi che sono nel mondo dello sport e dello spettacolo». Poi Giuseppe Casamonica è tornato su un classico della famiglia.

Da sempre i Casamonica si dicono vittima di un pregiudizio: «A uno che gli contestano che è un boss meglio non dire che ha lavorato. In questo processo c’è troppo pregiudizio nei nostri confronti», ha detto. Oggi la sentenza di primo grado stabilirà se Giuseppe Casamonica è un boss oppure no.

© Riproduzione riservata