- I giudici del tribunale di Milano hanno depositato le motivazioni con le quali hanno assolto tutti gli imputati del processo Eni Shell Nigeria dall’accusa di corruzione internazionale, a cominciare dall’ad della società, Claudio Descalzi
- Secondo i giudici i pm non hanno raggiunto la prova della colpevolezza portando solo indizi, ma la corte ammette che l’odore di tangenti ci fosse, seppur non in capo dell’imputato nigeriano di questo processo ma del suo socio, non entrato in questo procedimento
- Una parte rilevante del procedimento è dedicata alla figura di Vincenzo Armanna, il grande accusatore dei vertici Eni, e di Piero Amara, l’ex legale della società recentemente arrestato.
Bisognerebbe partire dalla penultima pagina delle motivazioni della sentenza del tribunale di Milano, che lo scorso marzo ha assolto «perché il fatto non sussiste» tutti e 15 gli imputati – 13 persone fisiche e 2 società – dall'accusa di corruzione internazionale del valore record di 1,09 miliardi di dollari nel processo Eni - Shell Nigeria, per trovare un interessante punto di osservazione. Precisamente da pagina 481, dove i giudici trattano dei soci occulti della società nigeriana Malabu che nel 2011 ha ceduto definitivamente il campo petrolifero Opl 245 alle due major europee del petrolio. I giudici si occupano di Mohammed Abacha, figlio dell'ex presidente nigeriano Sani Abacha e titolare del 50 per cento di Malabu.
Dopo aver smontato pezzo per pezzo le tesi dell'accusa per 480 pagine, parlando anche di «contraddizioni intrinseche» e «difficoltà interpretative» nel descrivere i fatti dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, i giudici scrivono che «la destinazione dei soldi ai pubblici ufficiali» potrebbe ricondursi anche a eventuali «accordi corruttivi» con questo socio occulto di Malabu e non con Dan Etete, imputato in questo processo e ritenuto il dominus della società.
Il sospetto
Sono quindi gli stessi giudici, nonostante le assoluzioni, a sospettare che una corruzione vi sia stata in questa storia, e che sarebbe «coerente» con la «successiva dispersione in contanti» dei saldi di conto della quota riconducibile all'erede del generale Abacha, «sul quale pendevano indagini volte a recuperare i soldi che lo stesso aveva sottratto alla Nigeria nell'ultimo periodo della sua dittatura».
Il riferimento al «saccheggio di Abacha» come lo chiamano i giudici è stato fatto dai pm in più occasioni durante il processo, ma non è stato preso in considerazione probabilmente perché il figlio del generale non è mai entrato, da imputato, nell'aula del Palazzo di Giustizia milanese.
Etete, al contrario, è entrato ma per lui i giudici hanno parlato anche di impossibilità di poter procedere per un «difetto di giurisdizione» in quanto tutti i fatti che lo toccavano si sarebbero svolti in Nigeria. Per questo motivo il tribunale milanese non avrebbe mai dovuto occuparsene.
Dunque anche i giudici adombrano l’ipotesi che sia stato il socio di Etete in Malabu il presunto corruttore, e che avrebbe utilizzato la sua quota del denaro pagato dalle due società europee.
Un altro passaggio chiave di questa sentenza, nella quale i tre giudici del collegio ricordano ai pm il «doveroso principio che colloca l'onere della prova a carico dell'accusa» che non può essere solo «indiziaria» anche nei casi di corruzione internazionale, riguarda la figura di Piero Amara, l'ex avvocato esterno dell'Eni recentemente arrestato dalla procura di Potenza con l'accusa di corruzione in atti giudiziari. Una figura che viene legata, in questo processo, a quella di Vincenzo Armanna, l'ex dirigente dell'Eni in Nigeria allontanato dalla società nel 2014 e diventato poi il grande accusatore dell'attuale amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi e di altri in questo processo.
Il video
Tutto ruota intorno a un video girato, prima dell'inizio del processo, da Amara nella sede di una società dell'imprenditore Ezio Bigotti. In quel video compare anche Armanna il quale, già fuori dall'Eni, starebbe tramando contro la sua società e avrebbe ventilato la possibilità di far acquisire a soggetti terzi alcuni asset onshore di Eni in Nigeria. Il tutto, però, solo dopo aver rimosso alcuni dirigenti Eni scomodi come Ciro Pagano (imputato) e Donatella Ranco (non imputata), che si sarebbero probabilmente opposti.
Durante il processo un difensore degli imputati è venuto a conoscenza (in modo decisamente curioso e fortuito per la verità) del video e lo ha menzionato alla corte dicendo che il pm lo aveva acquisito e che, però, non lo avrebbe depositato nel processo nonostante contenesse delle informazioni giudicate in sentenza rilevanti per far comprendere la poca attendibilità di Vincenzo Armanna nella sua veste di accusatore interessato in realtà a indebolire e ricattare i vertici della società anche gettando «un alone di illeceità sulla gestione da parte di Eni dell'acquisizione della concessione Opl 245 in modo da ottenere, attraverso l'intervento di Amara, l'allontanamento dalla Nigeria di coloro che avevano partecipato al negozio».
Per i pm quel video non conterrebbe informazioni «rilevanti» in quel processo e per quello non sarebbe stato depositato, come in realtà poi è avvenuto su richiesta dei difensori; per il tribunale ha rappresentato invece un elemento importante giudicare sostanzialmente inattendibile Armanna nonostante il video sia stato girato proprio dallo stesso Piero Amara che aveva chiesto ad Armanna di ritrattare le sue accuse a Descalzi nel periodo di indagini per poter rientrare in Eni. Ed è lo stesso Piero Amara che a fine istruttoria, non è stato sentito dai giudici su richiesta dei pm per valorizzare proprio le dichiarazioni di Armanna. Siamo nella primavera del 2020 e Amara era stato già sentito nell'inchiesta parallela della pm milanese Laura Pedio sul presunto complotto ordito da Eni ai danni della procura di Milano (i famosi verbali della loggia Ungheria).
Amara non è un teste decisivo
Per il tribunale, però, Amara non sarebbe stato un teste decisivo nel processo in corso. «La conferma di quanto riferito da Armanna circa un tentativo di indurlo a ritrattare (da parte di Amara e del numero due di Eni Claudio Granata, ndr) non avrebbe costituito un indizio di reità a carico di Descalzi» dicono i giudici, secondo i quali sottolineano che, se anche in astratto corrompere un testimone potrebbe essere una prova di colpevolezza, «una simile condotta dovrebbe essere interpretata come il comportamento di un amministratore (di una società quotata, ndr) che, pur di proteggere la propria compagine dalle calunnie che le erano rivolte, accetta di scendere a patti con il ricattatore e gli accorda quanto richiesto, ossia la riassunzione» in cambio del silenzio.
Resta il dubbio, vista la ricostruzione difficile del ruolo di Armanna e Amara, che sentire quest'ultimo sarebbe stato utile. Sarà probabilmente l'inchiesta sul complotto, quella parallela sulle manovra di Amara, intrecciata a questo processo, a sciogliere questi dubbi.
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