Con la sentenza di oggi, si chiude la prima, estenuante, complessa battaglia di una guerra giudiziaria che è destinata a durare ancora a lungo. Nella sentenza di oggi ha vinto l’impostazione della procura e ha perso quella degli imputati. Nelle prossime settimane è attesa la motivazione dei giudici
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Le motivazioni potremo leggerle solo tra diverse settimane, ma intanto il dispositivo della sentenza parla chiaro: nel processo che vedeva alla sbarra la gestione dell’Ilva per il presunto disastro ambientale avvenuto a Taranto negli anni dei Riva, dal 1995 al 2013, ha vinto l’impostazione della procura e ha perso quella degli imputati.
Rispetto alle pene richieste dai pubblici ministeri Mariano Buccoliero, Remo Epifani, Raffaele Graziano e Giovanna Cannarile, la difesa dei principali imputati ha ottenuto uno “sconto”, non l’agognato – e chissà quanto davvero atteso – ribaltamento dell’impostazione della procura, che dalla sentenza esce confermato: così, a fronte dei 28 e dei 25 anni richiesti, Fabio e Nicola Riva sono stati condannati a scontarne rispettivamente 22 e 20, mentre per l’ex direttore Luigi Capogrosso e per Girolamo Archinà, l’uomo delle relazioni istituzionali, i pm avevano chiesto 28 anni e ne hanno ottenuti 21. I cosiddetti “fiduciari” della proprietà, che per l’accusa costituivano una sorta di “governo ombra” dell’Ilva, sono stati condannati a 18 anni, due in meno di quanto chiesto.
Imputazioni, condanne e assoluzioni
I reati contestati erano gravissimi: associazione per delinquere, crollo di costruzioni o altri disastri dolosi, rimozione o omissione di cautele contro infortuni sul lavoro, avvelenamento di acque o sostanze alimentari e diversi altri, delitti contro la pubblica amministrazione e la fede pubblica quali fatti di corruzione, concussione, falsi e abuso d’ufficio, il tutto per consentire all’acciaieria di continuare a produrre a tutta birra, senza averne i requisiti, con il risultato di cagionare «eventi di malattia e morte nella popolazione residente».
La ricostruzione proposta dai pubblici ministeri alla fine ha tenuto anche nelle parti che, alla luce di un dibattimento monstre durato cinque anni, erano apparse più fragili, come quella relativa a politici e amministratori: tre anni e mezzo gli anni di carcere comminati a Vendola per concussione aggravata nei confronti dell’ex direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, affinché ammorbidisse la posizione dell’agenzia nei confronti dell’Ilva. Quello di Assennato è l’unico caso in cui i giudici hanno deciso per una pena più grave – il doppio – di quanto richiesto dai pm: due anni di reclusione. La dichiarazione in extremis dell’ex direttore di Arpa Puglia, con la rinuncia alla prescrizione e un attacco contro Vendola di una durezza senza precedenti, se ha inciso in qualche modo sulla decisione finale, non lo ha fatto in senso favorevole all’imputato. Gianni Florido, ex Presidente della Provincia, è stato condannato a tre anni.
Francesco Perli, l’amministrativista del gruppo, è stato condannato a 5 anni e 6 mesi; la Procura aveva chiesto 7 anni, ma la giuria lo ha assolto – salvo l’abuso d’ufficio – dal reato contestato al capo PP: non ha “pilotato” il rilascio dell’AIA 2011. Perli era difeso dall’avvocato Raffaele Della Valle, che nella sua arringa aveva fatto leva su errori, anche clamorosi, nelle trascrizioni delle intercettazioni e su decine di sentenze ottenute dal giudice amministrativo [1], [2], [3], [4], [5], [6], [7], [8] che, avendo dato ragione a Ilva, per la difesa erano la dimostrazione come la via maestra scelta dall’azienda, attraverso Perli, per far valere le sue ragioni fosse quella, non la “rete di relazioni” o le pressioni indebite. Perli.
Adolfo Buffo, direttore del siderurgico tarantino per pochi mesi a cavallo tra il 2012 e il 2013 e oggi direttore generale di Acciaierie d’Italia: rischiava vent’anni, ma è stato condannato a scontarne quattro. Tra le assoluzioni spiccano quelle dell’ex assessore regionale Nicola Fratoianni – non ha favorito Vendola – e dell’ex prefetto Bruno Ferrante, che secondo l’accusa sarebbe stato l’uomo chiamato dai Riva a fare da scudo all’azienda con la sua credibilità di uomo delle Istituzioni: presidente di Ilva per dieci mesi, i pm avevano chiesto per lui 17 anni di carcere.
Tra le richieste dell’accusa, è stata accolta anche quella relativa alla confisca degli impianti, ma nell’immediato, e fino al giudizio definitivo, se cambierà qualcosa non sarà per effetto della sentenza di oggi: la produzione dello stabilimento tarantino, per quanto ridotta ai minimi termini, è ancora considerata strategica per l’economia nazionale da una legge del 2012 su cui la Corte costituzionale si è pronunciata favorevolmente, per cui gli attuali gestori dello stabilimento mantengono la facoltà d’uso dell’area a caldo.
Strategie rischiose
Solo leggendo le motivazioni sarà possibile capire su quale terreno si è giocata davvero la partita, e cioè, al di là degli aspetti più “emotivi” o “suggestivi” su cui hanno giocato le parti nella fase finale delle requisitorie e delle arringhe, quali valutazioni i giurati abbiano fatto rispetto alle complesse questioni giuridiche poste dai capi di imputazione e dalle prove portate a carico e a discarico, a cominciare da perizie e consulenze estremamente complesse anche per gli addetti ai lavori.
Entrambe le parti avevano adottato strategie processuali all’insegna del “tutto o niente”, assumendosene i rischi. L’accusa scegliendo la strada del maxiprocesso, che è stato anche e soprattutto il processo a un modo di fare industria, ha presentato i principali imputati come un’associazione per delinquere che è stata tale sin dal momento in cui i Riva hanno acquistato l’Italsider statale. Quella che sembrava una manifestazione di debolezza – la richiesta di una professione di fede, di una pronuncia “sostanzialista”, come a dire: affacciatevi alla finestra, guardate lo stabilimento, e poi provate a dire che non è responsabile del disastro – potrebbe invece essere stato il suo punto di forza, anche in considerazione del fatto in Corte d’Assise la giuria è composta da due giudici togati e da sei giudici popolari estratti a sorte da un elenco di cittadini che, il più delle volte, sono alla prima esperienza nella veste di giudicanti.
Sul fronte opposto, la strategia della difesa, tutta giocata sulla debolezza dell’impianto probatorio portato dall’accusa, potrebbe essere apparsa ai giurati come uguale e contraria, cioè come il tentativo di rappresentare una realtà – quella tarantina – in cui in fondo tutto andava bene, e se qualcosa andava male non era per violazione delle leggi e dei limiti posti alle emissioni: la produzione di acciaio è un’attività essenziale ma ontologicamente impattante, per cui è consentito inquinare entro una determinata soglia, realizzando un compromesso tra produzione e lavoro da una parte e salute e ambiente dall’altra.
La battaglia e la guerra
Con la sentenza di oggi, si chiude - a nove anni dal sequestro dell’area a caldo disposto dalla gip Patrizia Todisco nel luglio 2012 – la prima, estenuante, complessa battaglia di una guerra giudiziaria che è destinata a durare ancora a lungo, e che forse in questo primo round non poteva finire diversamente. Le motivazioni saranno indispensabili per comprendere sulla base di quali criteri e valutazioni i giurati abbiano sciolto una serie di nodi che un dibattimento ricco di colpi di scena ha fatto venire al pettine: dalla configurabilità dell’associazione per delinquere alla sussistenza del disastro fino all’imputabilità dello stesso all’acciaieria; dal ruolo delle altre attività inquinanti che si svolgono nell’area, che la difesa riteneva di avere provato con i suoi consulenti, alla fragilità dimostrata da diversi testimoni-chiave. Con particolare attenzione a quelle che già adesso sono contraddizioni che saltano agli occhi: l’accusa aveva puntato molte delle sue carte, oltre che sulle perizie del gip che i consulenti della difesa ritenevano di aver demolito, sulla relazione della custode giudiziaria dell’acciaieria, Barbara Valenzano, secondo cui gli interventi ambientali dei Riva per 1,2 miliardi di euro erano tali solo sulla carta e non era stato fatto nulla; invece, secondo la sentenza del gup di Milano del 5 luglio 2019, passata in giudicato, quegli investimenti sono stati effettivamente realizzati. Proprio alle ultime battute del processo, Valenzano è stata oggetto di pesanti critiche anche da parte di Bruno Ferrante, che oggi è stato assolto.
C’è poi l’enorme mole di intercettazioni telefoniche che secondo la difesa sono state interpretate a senso unico e non sono suffragate da altri riscontri, e ci sono le decine di sentenze amministrative ottenute dall’avvocato Perli, secondo cui i limiti alle emissioni erano rispettati.
C’è da scommettere che questi e altri delicati aspetti emersi dal giudizio di primo grado saranno al centro delle prossime tappe di una battaglia processuale che promette di proseguire senza esclusione di colpi nei prossimi gradi di giudizio. Fino a sentenza definitiva, per i condannati di oggi continuerà a valere la presunzione di innocenza, come civiltà giuridica impone.
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