Sul banco dei testimoni monsignor Giancarlo Bregantin e padre Alex Zanotelli, missionario comboniano per anni nelle periferie di Nairobi. «Lucano ha anticipato quello che il governo dovrebbe fare in materia di accoglienza e immigrazione», ha detto Zanotelli. Il dibattimento alla battute finali, e le prove si sgonfiano
«Ho letto l’enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti. Ecco, molte delle iniziative che ho visto realizzarsi a Riace, vanno proprio in quella direzione». Processo Lucano, sul banco dei testimoni monsignor Giancarlo Bregantini. Oggi vescovo di Campobasso, dal 1994 al 2008, vescovo della diocesi di Locri Gerace. Bregantini è un “prete di strada”, ha vissuto anni caldissimi in quella parte della Calabria.
Ha organizzato cooperative agricole di altissimo livello per disoccupati e persone in difficoltà, si è occupato dei migranti, ha lottato contro la ‘ndrangheta. I boss della zona non gradirono tanto attivismo e un giorno piazzarono un finto ordigno sotto il palco dove doveva parlare alla sua gente. «Sono stato presente al primo sbarco dei curdi», ricorda monsignor Bregantini. Era il 1 luglio del 1997, quando un veliero proveniente dalla Turchia si arenò sulla spiaggia di Riace con centinaia di profughi. Da quello sbarco iniziò tutto. «Tante volte ho accompagnato Lucano, ho sempre notato e apprezzato la positività del suo impegno, e anche una certa capacità profetica del modello Riace. La diocesi in quel periodo ha fornito aiuti e sostegno, ma la cosa che mi colpiva era il consenso che c’era attorno a Mimmo Lucano».
Il vescovo riannoda i ricordi, le lunghe discussioni, le emergenze continue con l’arrivo di centinaia di migranti sbarcati e portati a Riace. Dove non si badava solo all’accoglienza immediata. «Il verbo che mi piace – sottolinea Bregantini – è accompagnare». Costruire un percorso di vita per chi arriva dal mare. «Ho visitato le case, ho visto i migranti diventare energia vitale per il paese. Ricordo il laboratorio di tessitura, quando ho toccato con mano che l’antica arte calabrese veniva recuperata da uomini e donne dell’Etiopia e della Siria, allora ho capito che stava nascendo un qualcosa, un modello mondiale. Questa è l’iniziativa più importante del modello Riace».
Parole importanti quelle di Monsignor Bregantini, che toccano il cuore di un processo che ormai va avanti da più di un anno. Chi c’è sul banco degli imputati nell’aula di Locri, un sindaco e rappresentanti di cooperative che in questi anni si sono occupati di accoglienza, accusati a vario titolo di aver violato leggi, norme e regolamenti, oppure c’è altro? Un modello, una visione, uno sguardo “profetico” su come affrontare il grande tema delle migrazioni?
Padre Alex Zanotelli, missionario comboniano per anni nelle periferie di Nairobi, è arrivato da Napoli per testimoniare. «Lucano ha anticipato quello che il governo dovrebbe fare in materia di accoglienza e immigrazione». L’inchiesta ha fatto saltare tutto. Anche i finanziamenti. «La prima volta sono stato a Riace nel 2004, ci sono tornato spesso. Come comboniani abbiamo tentato di dare una mano con donazioni e campi di lavoro. I migranti erano contenti di essere lì, Riace è stato un modello che dovrebbe essere adottato in tutta Italia. Ringrazio Lucano per le sue scelte, per quello che ha fatto. L’inchiesta, l’arresto, a sospensione dei finanziamenti, ecco, tutto ciò è stato un brutto colpo per Riace. Mimmo ha continuato ad andare avanti in maniera eroica, senza fondi pubblici, fidando sulla solidarietà di tanti. Riace deve continuare, il suo modello non può finire».
Verso la fine del processo
Si avvia alla conclusione, la camera di consiglio per la sentenza è prevista per il 27 settembre, un processo che fino a questo momento ha visto sgretolarsi la parte fondamentale delle accuse. È crollato il supertestimone Ruga, un commerciante che aveva dichiarato di aver firmato fatture false e gonfiate sotto l’imposizione di Lucano.
Sono venute alla luce le contraddizioni delle decine di ispezioni fatte a Riace dalla prefettura e dal sistema Sprar. Anche sull’ultima, quella redatta dal viceprefetto Francesco Campolo. Una relazione “positiva”, che coglieva gli aspetti più dinamici dell’esperienza Riace, i laboratori, le borse lavoro, il turismo solidale. Quelle pagine furono giudicate una “favoletta” nei corridoi della prefettura di Reggio Calabria. La relazione venne tenuta chiusa nei cassetti per un anno, al punto che Lucano e i suoi avvocati furono costretti a rivolgersi alla procura della Repubblica. «Non toccava a me rilasciarne una copia, la competenza era del prefetto», dice in udienza il funzionario Campolo.
Elisabetta Madafferi, consulente della difesa e dirigente generale della Provincia di Reggio Calabria, ha offerto una serie di chiarimenti su punti essenziali dell’accusa. Non ci sono irregolarità o violazioni di legge sulla costituzione della cooperativa per la raccolta differenziata dei rifiuti (quella fatta con gli asinelli), sulle carte di identità senza la riscossione dei diritti di segreteria, e su quelle concesse a una migrante e a suo figlio nato in Italia da pochi mesi.
Volge al termine un processo nato da una inchiesta e da una serie di ispezioni governative, che sempre più acquistano il sapore amaro dell’intervento politico. Lo “scandalo” Riace esplode quattro anni fa, dopo le grandi inchieste siciliane sulle navi delle Ong nel Mediterraneo. Tutte finite in una enorme bolla di sapone. Ma con effetti devastanti sull’immagine e sul ruolo delle organizzazioni umanitarie. Furono mobilitati un comitato e una commissione del parlamento, i giornali scrissero fiumi di parole sui “taxi del mare”. Definizione fatta propria e sbandierata nei talk politici, sia da Matteo Salvini che dall’attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
Dopo le Ong toccava a Riace, al suo “modello” eversivo, che dimostrava la possibilità di politiche per l’accoglienza diverse, costruite sulla solidarietà e non sulla paura. L’inchiesta è costata il taglio dei finanziamenti pubblici, l’arresto di Lucano e il suo esilio. Un processo. Eppure nel corso dei mesi altri organismi si sono pronunciati, giudicando il quadro indiziario «inconsistente» (Tribunale del Riesame di Reggio Calabria), rilevando che sulla costituzione della cooperativa per la gestione della raccolta differenziata «non c’era stata azione fraudolenta» (Cassazione sulla revoca degli arresti domiciliari a Lucano), dando una lettura positiva del “modello Riace”, «encomiabile negli intenti e anche negli esiti del processo di integrazione» (Tar e Consiglio di Stato). Dopo decine di udienze, una marea di intercettazioni telefoniche e controlli bancari fatti sui conti di Mimmo Lucano e dei suoi familiari, nessuno è riuscito a dimostrare l’esistenza di un solo euro sottratto ai migranti, rubato.
© Riproduzione riservata