- Il 7 aprile il giudice del tribunale monocratico ha inflitto cinque anni al generale Alessandro Casarsa, quattro anni invece a Francesco Cavallo e Luciano Soligo, due anni e sei mesi a Luca De Cianni, oltre un anno a Massimiliano Colombo Labriola e Tiziano Testarmata e un anno e tre mesi a Francesco Di Sano e Lorenzo Sabatino. Gli imputati si sono difesi dalle accuse di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia.
- Tra i condannati nel processo sui falsi c’è anche Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del “Gruppo Roma” ma promosso in seguito fino a guidare il reggimento Corazzieri al Quirinale, fin dentro la presidenza della Repubblica.
- Il limite della decenza era stato superato abbondantemente, il pm Musarò ha ricordato in aula, durante la sua requisitoria, che «si era perfino arrivati a dire che Cucchi si era autolesionato sbattendo più volte il viso a terra e contro il muro della cella».
Ci sono i carabinieri che hanno pestato a morte Stefano Cucchi e gli ufficiali, generali e colonnelli, che hanno manovrato per insabbiare la verità sulla morte del geometra romano. Ora due sentenze, a distanza di un paio di giorni, archiviano tredici anni di silenzi, depistaggi, clamorose sviste giudiziarie. Li archiviano ma non li cancellano dal libro italiano delle ingiustizie. E così, dopo la sentenza della Cassazione di qualche giorno fa che ha condannato definitivamente per omicidio preterintenzionale due militari, ieri è arrivato il verdetto di primo grado su otto carabinieri di altro grado che hanno fatto di tutto per garantire l’impunità ai colpevoli.
Il giudice del tribunale monocratico ha inflitto cinque anni al generale Alessandro Casarsa, quattro anni a Francesco Cavallo e Luciano Soligo, due anni e sei mesi a Luca De Cianni, oltre un anno a Massimiliano Colombo Labriola e Tiziano Testarmata, un anno e tre mesi a Francesco Di Sano e Lorenzo Sabatino. Gli imputati si sono difesi dalle accuse di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia.
La sentenza arriva dopo un’indagine complessa portata avanti dal pm della procura di Roma Giovanni Musarò, che è riuscito a rompere il muro di omertà interno all’Arma sul caso, che ha retto per oltre un decennio. In questo cortocircuito istituzionale chi sapeva ha taciuto anche quando a processo per le botte a Cucchi erano finiti agenti penitenziari innocenti, e infatti poi assolti.
L’inchiesta sui depistatori di stato è stata possibile anche grazie alla scelta di collaborare da parte di un carabiniere testimone dell’arresto di Cucchi: Francesco Tedesco. Era il 15 ottobre 2009 quando i colleghi di Tedesco, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, avevano colpito con schiaffi, calci e pugni il ragazzo in stato di arresto. Tedesco aveva provato a fermarli, senza successo.
Quando Cucchi, una settimana più tardi, era morto in ospedale si era subito attivata la macchina del depistaggio. L’Arma sapeva, ma alcuni suoi generali e colonnelli hanno cercato di far sparire le prove. Sono state alzate, per usare le parole dell’accusa, «tante cortine fumogene». Il depistaggio è iniziato, soprattutto, dopo la pubblicazione delle fotografie del cadavere di Cucchi, con il volto tumefatto. Cioè quando l’opinione pubblica ha iniziato a sostenere la battaglia per ottenere giustizia della sorella Ilaria e dei genitori del ragazzo. I giornalisti avevano iniziato a indagare. Depistare, secondo i condannati, era l’unica via d’uscita per tutelare il buon nome del corpo.
Il generale
Tra i condannati nel processo sui falsi c’è anche Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma ma promosso in seguito fino a guidare il reggimento Corazzieri al Quirinale.
Tra i documenti fasulli prodotti per salvare i colpevoli delle brutalità su Cucchi c’è una nota del 26 ottobre 2009. Il documento attestava che «Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo umida che per la rigidità della tavola del letto priva di materasso e cuscino». L’informativa era depurata dei «dolori al capo, i giramenti di testa e i tremori». Il limite della decenza era stato superato abbondantemente, il pm Musarò ha ricordato in aula, durante la sua requisitoria, che «si era perfino arrivati a dire che Cucchi si era autolesionato sbattendo più volte il viso a terra e contro il muro della cella».
Un’attività di depistaggio «ostinata a tratti ossessiva», aveva aggiunto il magistrato, specificando: «Non è un processo all’Arma dei carabinieri». Anche alla luce delle collaborazioni ottenute in quest’ultima indagine che ha permesso di fare luce una volta per tutte sulla morte di Cucchi.
La sorella Ilaria
«Sotto shock, non credevo sarebbe mai arrivato questo giorno. Anni e anni della nostra vita sono stati distrutti, ma oggi ci siamo. E le persone che ne sono state la causa, i responsabili, sono stati condannati», ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. «Oggi è un giorno importante perché un istante dopo la morte di mio fratello si metteva in piedi la macchina dei depistaggi che è costata alla nostra vita anni e anni di processi a vuoto», ha aggiunto.
«La sentenza odierna del processo che ha visto imputati otto militari per vicende connesse con la gestione di accertamenti nell’ambito del procedimento “Cucchi-ter”, riacuisce il profondo dolore dell’Arma per la perdita di una giovane vita. Ai familiari rinnoviamo – ancora una volta – tutta la nostra vicinanza. La sentenza, seppur di primo grado, accerta condotte lontane dai valori e dai princìpî dell’Arma». Questa la nota ufficiale del comando generale dei carabinieri. Una presa di posizione forte. Senza precedenti nel caso Cucchi, contraddistinto spesso da ambiguità e omissioni.
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