In fuga da guerre e da persecuzioni, la storia dei professori a rischio. Donne e uomini in pericolo di vita. Una rete internazionale li accoglie anche nel nostro Paese, dove non mancano insidie e contraddizioni
Scappano da guerre, dittature, persecuzioni. La loro libertà è compromessa e la vita in pericolo. Sono studiosi, accademici, borsisti, donne e uomini in fuga da Afghanistan, Russia, Ucraina, Iran, Yemen, Turchia, Siria, Palestina. Oggi possono continuare a svolgere le loro ricerche grazie alla rete internazionale Sar (Scholars at risk) che offre protezione e supporto accogliendo anche in Italia quanti nel mondo subiscono minacce nelle loro attività accademiche.
Nel nostro Paese università ed enti di ricerca che aderiscono a questa rete ospitano i ricercatori minacciati e promuovono la libertà accademica, convinti del potere della ricerca nel creare legami internazionali e connessioni tra conoscenza, saperi e capitale umano a rischio. L’inclusione scientifica in Italia, però, si scontra con la miopia delle istituzioni e con le insidie di un sistema emergenziale che aumenta la vulnerabilità dei soggetti che dovrebbe proteggere.
«Lavorare per l’empowerment delle donne e l’uguaglianza di genere è proibito in un Paese come l’Afghanistan sotto il controllo dei Talebani, che impediscono la libertà delle donne», racconta una studiosa afgana, ora in Italia: «Io dovevo scegliere se morire segregata in casa o scappare e continuare i miei studi all’estero».
Gli ostacoli burocratici
I ricercatori che entrano nella rete Sar subiscono nei loro Paesi licenziamenti, limitazioni nell’esprimere le proprie idee, repressioni, violenza fisica, sparizioni, procedimenti giudiziari, imprigionamenti. «Siamo stati considerati terroristi. Io sono stato bandito a vita dal lavoro negli enti pubblici», racconta un ricercatore turco che insieme ai suoi colleghi è stato allontanato ed espulso dall’università a causa della sua partecipazione politica contro le azioni violente intraprese dal governo turco nella provincia curda. Lo stesso avviene per le ricercatrici iraniane e per le studiose e gli studiosi russi che, per il loro attivismo politico e per le ricerche scientifiche svolte, subiscono persecuzioni e rischiano la reclusione.
Dalla sua fondazione nel 2019, Sar Italy ha assistito centinaia di borsisti, ma il percorso di accoglienza in Italia si scontra con tortuosi iter burocratici e impedimenti legislativi: l’equiparazione dei titoli è uno scoglio enorme, considerati i diversi sistemi di istruzione; le procedure per ottenere un visto non sono coerenti con i tempi di impiego dei fondi per le borse; una volta in Italia, gli studiosi devono affrontare i disagi per ottenere un permesso di soggiorno da cui poi dipende la possibilità di aprire un conto bancario e affittare una casa; le borse hanno durata breve e in assenza di continuità i ricercatori devono reinventarsi spesso in un altro Paese. Per questi studiosi vuol dire aumentare la loro incertezza e vulnerabilità, già compromessa dall’instabilità che si portano dietro con le loro storie.
«Un altro problema è la percezione dello studioso», spiega Mara Matta, professoressa alla Sapienza di Roma e attiva nel gruppo accoglienza e advocacy della rete Sar. «Non tutti gli studiosi sono percepiti a rischio allo stesso modo. Prendiamo l’esempio di un ricercatore che scappa dall’India o dalla Cina. L’università italiana può dire: quelli sono Paesi amici con cui noi lavoriamo, non sono Paesi in guerra, perché questo studioso si sente a rischio? Forse è una spia? Forse non è veramente uno studioso? Non è così a rischio come qualcun altro».
Matta va avanti: «Queste valutazioni dell’università sono dettate da accordi che vanno al di là della tutela della persona che sta facendo richiesta di accoglienza. Molto spesso questa tipologia di studenti o studiosi a rischio non viene nemmeno considerata per non mettere in crisi le collaborazioni con Stati potenti per via degli accordi in essere tra il nostro Governo e questi Paesi».
Richieste inascoltate
Quando arrivano in Italia, molti studiosi non chiedono asilo perché per la convenzione di Dublino, una volta finita la borsa, sono poi obbligati a rimanere in un Paese, il nostro, che, non offre prospettive. «Con lo status di rifugiato sentono addosso l’immagine della vittima più che del ricercatore», spiega Ester Gallo, professoressa all’Università di Trento e responsabile Sar dei rapporti con le istituzioni.
«Anche se non chiedono asilo, quando lavori con questi ricercatori, ti accorgi che si portano dietro traumi profondi». Nei contesti che si lasciano alle spalle le loro università vengono bombardate oppure la polizia fa irruzione, pestando e arrestando professori e studenti: «Tu passi da una routine accademica a una situazione in cui non sai più che fine hanno fatto i tuoi colleghi e i tuoi studenti, se sono vivi o morti, se sono in prigione, se sono in isolamento. È chiaro che quando parti e arrivi in una nuova università, da un lato ti senti un privilegiato, dall’altra dentro di te si generano sensi di colpa».
Il programma Sar offre un’opportunità di uscita e di salvezza, ma deve scontrarsi a livello istituzionale con un approccio che rincorre le emergenze. «Quando è iniziata la guerra in Ucraina», Gallo si accende, «l’Ue così come il Mur ha avuto il coraggio di mandarci linee guida per creare borse temporanee perché dicevano sarebbe stata una guerra lampo e adesso abbiamo ricercatori che stanno qui da due anni e noi abbiamo finito i soldi. Alcune mie colleghe ucraine, finita la borsa, hanno trovato come unico lavoro fare la domestica».
La rete Sar lamenta che il ministero degli Esteri e il Mur cercano la loro collaborazione solo quando ci sono le emergenze: «Quando è iniziata la crisi in Ucraina, gli afgani in Italia sono stati dimenticati. Abbiamo avuto atenei che sono stati costretti a togliere le borse agli afgani per darle agli ucraini perché l’Ue aveva detto: adesso aiutate l’Ucraina. Ci vuole un po’ di onestà politica e anche intellettuale. Se l’Italia non è in grado di portare avanti un’inclusione scientifica sostenibile e seria, allora dicesse ai lavoratori qualificati di farsi accogliere dalla Germania».
L’obiettivo di Sar è avviare un programma nazionale di borse della durata di tre anni che facilitino l’ingresso nel mondo del lavoro: «Servono fondi e un’infrastruttura nazionale. Ma non riusciamo, e ci abbiamo provato, a dialogare con i ministeri di competenza. Restiamo inascoltati», denuncia Gallo.
Peraltro, vengono investiti fondi pubblici per formare studenti e dare opportunità di ricerca a studiosi stranieri che dopo vanno a spendere questo capitale in Europa del Nord o negli Stati Uniti. Anche da un punto di vista utilitaristico, converrebbe alle istituzioni creare un progetto di accoglienza di lungo periodo.
Ester Gallo è tra le fondatrici di SAR Italy. A dar vita a questa rete l’ha spinta una storia importante. La sua. Nel 2011 Ester non riesce a trovare lavoro in Italia. Si trasferisce in Turchia dove viene assunta dall’università di Smirne. Nel 2016 a seguito del colpo di Stato, viene licenziata ed espulsa dal paese: «Sono tornata in Italia e ho vinto un concorso a Trento, ma non riuscivo a dimenticare di aver visto arrestare i miei colleghi e i miei studenti turchi. Gli stessi che mi hanno sostenuta e aiutata quando ero arrivata lì da disoccupata e straniera quale ero».
Quando torna in Italia e trova un lavoro, Ester è consapevole del privilegio di cui può godere e allo stesso tempo sente il dovere di fare qualcosa per i colleghi turchi: «Parlai con il rettore e da lì abbiamo cominciato a raccogliere i soldi, a fare una campagna, a mettere in piedi il programma e in contemporanea ci siamo trovati con gli atenei di Padova, Trieste, Verona e abbiamo messo su questa rete».
Lo spirito con cui il progetto Sar porta avanti la sua attività è in termini di reciprocità. Non solo perché l’apprendimento tra accademici è reciproco. «Essere studiosi e ricercatori a rischio è una situazione talmente tanto generalizzata che sembra quasi non essere più l’eccezione», conclude Gallo. «Un giorno tocca a loro, domani potrebbe toccare a noi».
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