Il grande cronista della «razza di chi rimane a terra» è nato il 1° aprile ed è morto venerdì 13: l’ironia aleggiava dalle sue parti. Montanelli lo rimproverava di non avere capitalizzato il suo talento, ma lui era lontano dal genere “giornalista con l’agente”. Il ricordo di un amico che lo ha accompagnato mentre portava nelle scarpe le prove delle violenze cinesi in Tibet
C’è una citazione di Eugenio Montale, un minuscolo grappolo di parole messe in fila dal premio Nobel, che piaceva ad Ettore Mo: «Noi della razza di chi rimane a terra». Il cronista randagio, volentieri solitario, cittadino perfetto tra la umanità appiedata, senza fare differenze tra etnie, religioni e culture, raramente ha trovato in giro per il mondo una porta chiusa che non lo facesse entrare e una bocca che non volesse parlare con lui. Possedeva una sensibilità lieve e disarmata, un lasciapassare unico davanti alle vicende degli sconosciuti.
E un’altra frase piccola, breve, si collega a questa di Montale. Quando un giorno qualcuno, con un microfono in mano, pose una domanda piuttosto strampalata: «Quale animale vorrebbe essere?». Ettore aveva risposto: «Un asinello. Perché quando raglia non è per fame, ma per malinconia».
La sua biografia è conseguente, porta proprio come titolo una antica filastrocca: Ma nemmeno malinconia. Parole e musica per migranti, e non solo, per vittime della lontananza, della solitudine, che lo hanno accompagnato come una colonna sonora sotterranea, carsica. Il titolo del libro non piaceva ai signori del marketing della casa editrice. Ma assieme alla foto un po’ malandrina in copertina scattata da Luigi Baldelli forma la carta di identità perfetta di un inviato speciale che non ha lasciato eredi e nemmeno ne troverà in futuro. Era nato il 1° aprile 91 anni fa, il suo funerale è avvenuto di venerdì 13. Anche l’ironia si aggirava volentieri attorno a lui.
Il suo tavolo in albergo, a volte in locande sgangherate, a volte in stanze eleganti, dava l’idea di una consuetudine monastica, di un rito rispettoso: la macchina da scrivere, la carta, e il taccuino degli appunti erano sempre disposti in ordine. Non c’era il caos di corpi estranei che avvolgeva l’habitat improvvisato e pittoresco di altri colleghi, in quella altalena sempre incerta di arrivi, soste brevi o snervanti, e poi partenze che scandiva le corrispondenze dall’estero fino a venti anni fa. A volte Mo batteva velocemente i tasti ma senza scrivere realmente, per prendere tempo davanti alla fatica di governare il linguaggio, di stendere le parole o per ingannare in modo infantile il cronista della stanza accanto che credeva di essere già stato sconfitto sentendo quel ticchettio.
I guerriglieri afgani lo hanno preso infinite volte con loro a piedi o seduto dietro su una motocicletta sgangherata, le donne cecene chiuse nei sotterranei di Grozny sbriciolata lo hanno sfamato e riscaldato durante l’assedio, un camionista finlandese nerboruto lo trasportò da Tampere fino al Kazakistan cibandolo amorevolmente con orrende miscele di asparagi e mirtilli liofilizzati, con un coltellaccio penzolante sotto il volante come ultima protezione.
Le suore di Saranda nell’Albania in rivolta gli fecero posto sulla loro unica jeep per farlo arrivare a Valona, condizione non sufficiente per sfuggire in un uliveto a degli scalmanati con i kalashnikov, impugnati da mani pericolosamente tremolanti, che lo accusavano di essere una spia greca.
Mentre le suore di Arona, si può dire vicine di casa, dopo aver sentito una sua memorabile intervista con Milena Gabanelli infarcita di imprecazioni tonanti verso Colui che governa sopra le nuvole, gli diedero egualmente l’assoluzione.
Quello resta un vero scrigno della sua vicenda umana e letteraria. Altre suore in precedenza, spagnole, lo avevano ingaggiato come docente di francese per le ragazze del loro collegio, dopo avergli chiesto di recitare l’Ave Maria in francese, probabilmente per la prima volta nella vita. In quel caso la sua scuola personale di giornalismo, con lavori precari e spesso improbabili, non era ancora terminata. Doveva ancora entrare nell’ufficio del Corriere a Londra, al gradino più basso. Ci fu un dibattito surreale se abbreviare la sigla “vice” o quel cognome di solo due lettere.
Molti anni dopo invece Bernardo Valli ritornava da Sarajevo in guerra, vedendolo disteso sul sedile posteriore dell’auto aveva chiesto: «Gesù bambino si è addormentato?».
E qualcosa di simile doveva sentire lo sconosciuto salumiere di Gorizia, copia fisica quasi perfetta di Mo, emerso un giorno casualmente verso il tramonto proprio sul confine sloveno. Come il buon samaritano il sosia sconosciuto gli proponeva in dono per motivi ignoti alcuni capi del suo guardaroba. Ma lo stesso bisogno di tenerezza, di rivestire il prossimo non necessariamente ignudo, sentiva anche Giuliano Zincone quando gli regalò una protettiva, pregiata sciarpa rossa in via del Corso a Roma, prima di una delle tante partenze verso il rigido inverno afgano.
Quel governo comunista gli negava ostinatamente il visto di ingresso. I servizi segreti non sopportavano di essere stati irrisi ripetutamente da quel giornalista italiano che non assomigliava a rambo ma scavalcava ad alta quota illegalmente i suoi confini, in compagnia dei guerriglieri. Sempre temerario. Una volta aveva nascosto i dollari necessari al viaggio in fondo al sacco con la biada per il mulo o il cavallo.
In vita mia non ho mai usato la parola Eccellenza, perché non credo esistano uomini eccellenti, senza un qualche difetto. A cominciare dal mondo della politica. Solo una volta ho usato quella parola in una lettera al presidente Najibullah per chiedere il via libera all’ingresso di Ettore a Kabul, quando i sovietici ormai sconfitti si ritiravano. Un cedimento che non ha portato alcuna fortuna. E che tolse a Mo il piacere, ma anche il diritto, di vedere e chiudere la sua storia più faticosa e più lunga.
Veniva spontaneo proteggere Ettore, con quel cognome sincopato, che più breve non si può, in apparenza trafugato a un cittadino cinese, e con la sua statura modesta. Da lui stesso definita “inconsistenza fisica” nei momenti in cui il buon umore lo abbandonava. In compenso ha avuto sempre al suo fianco un angelo custode generoso. Che lo ha protetto da cannoni, fucili, mine e da tutte le altre insidie belliche possibili, compreso il tradimento delle persone. Attività esercitata volentieri lungo certi confini.
Anche se poi lui stesso aggiungeva che l’altezza modesta configura un bersaglio ridotto, e che quindi gli bastava un coraggio dimezzato rispetto alla media. Un protettore che lo ha fatto arrivare a destinazione in ogni luogo, con itinerari disegnati caparbiamente che sembravano ignorare la forma reale del mappamondo. Come quando la rotta banale dal Tagikistan a Kabul fu bloccata dal colera, sostituita alla fine da una specie di periplo del pianeta.
Un angelo custode che ha contribuito a recuperare la carta di credito del giornale rimasta più volte in mani estranee, in zone impervie, e a ritrovare il passaporto destinato a subire sparizioni ancora più allarmanti. Angelo affiancato in concreto nella sua opera metafisica da Ferruccio de Bortoli che negli anni ha protetto la umiltà di questo inviato come un padre protegge un figlio o un fratello aiuta l’altro. Non sono mai uscite parole di vanteria dalla bocca di Ettore.
Quando un giorno di settembre a Londra era riuscito a intervistare i Beatles, ormai divi inavvicinabili, i fans in delirio avevano chiesto l’autografo anche a lui. Filosoficamente per l’occasione citò un proverbio inglese: «Anche il cane più piccolo e malconcio ha diritto al suo giorno fortunato». È una specie di trilogia che, assieme alla citazione iniziale di Montale e all’asino malinconico, ignora la parola “carriera” nel suo significato contemporaneo più selvaggio. Non a caso anche l’archivio che ha lasciato è una specie di cantiere aperto, frammentato, non è pronto per le celebrazioni, proprio come fa chi coltiva con reticenza la propria biografia.
Le verità sotto le scarpe
Queste righe qui sotto raccontano un capitolo inedito nella storia di Ettore, a parte quello che scrisse sul Corriere dopo quel viaggio. Andavamo in Tibet nell’estate 1988 dopo la rivolta del 1987, la più violenta dopo la annessione e repressione militare cinese degli anni Cinquanta.
I tibetani colpevoli di insubordinazione avevano incendiato e distrutto ma ancora avevano usato i kalashnikov presi alla polizia come bastoni per malmenare gli agenti, non usandoli per sparare. I monasteri erano stati brutalmente organizzati come caserme, monaci e religiose erano stati imprigionati e torturati. Eravamo entrati a piedi dal Nepal, perché la strada era franata. Al ponte dell’amicizia tra i due paesi un cinese in abiti borghesi, con una pistola infilata dietro tra la cintura e i pantaloni, si era accontentato delle banalità che gli aveva raccontato l’agente di viaggio di quel minuscolo gruppetto.
Noi eravamo conciati con delle magliette rosa e azzurre che reclamizzavano la città di Katmandu, dei cappellini flosci, e un minimo di boraccia e zaino. Le sanguisughe attendevano inesorabili sulla pendice della montagna bloccata dalla frana. Due giovani svizzeri convenzionali in tutto completavano una apparente banalità dei viaggiatori.
Ettore per l’occasione aveva scelto l’identità del professore di musica lirica, quasi autentica, attingendo in parte alla sua esperienza passata di cantante e alla passione per le romanze. Ma la notte prima di metterci in viaggio all’Oberoi di Katmandu aveva incontrato un americano che voleva sapere tutto della sua professione. Ci eravamo proposti in anticipo di dire sempre solo cose banali. Ma l’americano era veramente molesto, il suo sembrava un interrogatorio. Così, per scrupolo residuale, era stata incollata una ricevuta bancaria di dollari sul passaporto di Ettore, studioso di musica in quel caso, per nascondere la inopportuna parola press che ancora campeggiava su una pagina.
La strada verso Lhasa aveva superato un passo di oltre cinquemila metri. Ettore non sentiva mal di testa né vomito, anzi giocava a pallone con i soldati cinesi. Un fisico indistruttibile. Mentre attraversavamo una landa particolarmente desolata si accorse che in tasca non c’era più il passaporto.
Iniziò una ricerca disperante, avevamo visitato un monastero ormai lontano, la capitale era ancora a qualche giorno di viaggio. La fortuna quella volta forse chiese aiuto al Dalai Lama stesso e da quell’altipiano color ocra emerse magicamente il libretto con il simbolo della Repubblica italiana. Nella marcia verso l’antica capitale buddista incontravamo cartelli cinesi di ammonimento alla popolazione che il nostro ottimo, indimenticabile accompagnatore, tibetano con passaporto nepalese, ci traduceva tra l’indifferenza di altri viaggiatori ignari. Viaggiare per non conoscere.
A Lhasa non arrivava mai il buio perché gli orologi cinesi sono regolati tutti sull’ora di Pechino, mentre il Tibet sta più o meno sopra l’India. Ma l’ossigeno tibetano non bastava ai cinesi saliti dalla pianura, si vedevano tra loro molte bombolette di colore nero per respirare meglio. Il Tetto del mondo non era esattamente casa loro. Quando cominciava a scendere il sole andavamo a incontrare testimoni, protagonisti di quella rivolta, in vicoli stretti, in vecchie case, su per scalette di legno scricchiolanti e scivolose per il burro salato diffuso che si mette nel the. Non avevamo bisogno dell’ossigeno ma nemmeno eravamo una presenza che si confondeva tra la folla locale. Avevamo raccolto molte testimonianze e documenti scritti, racconti di prima mano. Il nostro accompagnatore sapeva che ormai le autorità ci tenevano d’occhio, che aspettavano qualche passo falso, ma non faceva trapelare nulla. Eravamo arrivati per strada dal Nepal, ripartivamo nella stessa direzione, ma in aereo.
La notte prima della partenza dovevamo nascondere le testimonianze raccolte, per portarle fuori ma anche prima di tutto per proteggere le persone incontrate. Decisi di dividere appunti e documenti tra libri, carte geografiche e fotografie, fedele all’idea della Lettera rubata descritta da Edgard Allan Poe che tutti cercano ma che in realtà è davanti a loro. Ettore invece aveva deciso di piegare i fogli e metterli all’interno degli scarponi, sotto i piedi.
La mattina dopo passo i controlli dell’aeroporto senza problemi. Quando è il momento di Ettore il metaldetector suona e si accende. La guardia cinese indica di rimuovere le scarpe e di farle passare da sole sul nastro. Ci guardiamo con due sguardi inerti. Il nostro accompagnatore sembra di pietra. Le scarpe aperte ripassano sul nastro, si vedono bene i caratteri tibetani dei fogli, ma il poliziotto pensa ad altro. Saliamo in aereo. Quando siamo fuori dallo spazio aereo cinese il sangue riprende il suo ritmo abituale. Qualcuno deve avere parlato con l’angelo custode.
Su suggerimento di un grande amico diplomatico quelle carte che abbiamo con noi non le mandiamo al Palazzo di vetro dell’Onu, dove la Cina può utilizzare il suo diritto di veto. Le prove di violenze e torture le portiamo a Ginevra, presso la Commissione dei diritti umani. Lì non possono essere bloccate. E lì per la prima volta la vicenda tibetana trova un punto di approdo. Avendo letteralmente camminato sotto i piedi di Mo.
La sua ricchissima storia può essere contenuta dentro un lungo repertorio di battute brevi. Montanelli un giorno a Parma lo criticò pubblicamente e affettuosamente perché – ormai famoso e pluripremiato – dissipava il suo talento scrivendo poco. Non rielaborava e riconfezionava cose già scritte. A Londra, di ritorno dal Vietnam, lavorò da mattina a sera per scrivere quell’articolo e approdare esausto in un ristorante indiano.
Era decisamente lontano da quella deriva produttiva ad oltranza che progressivamente ha visto comparire gli agenti dei giornalisti, per introdurli nel mondo televisivo, radiofonico, dei dibattiti, delle presentazioni, come si fa con i cantanti, gli attori, gli sportivi. Anzi nella vita di Mo c’è tutto un capitolo al contrario: gli era stato offerto un progetto editoriale con testi rilegati e titoli programmati, e con contratto definito, con numeri e percentuali, che poi senza spiegazione non ha prodotto nulla.
Il capitolo balcanico
Ma parallelamente c’è un capitolo balcanico non scritto, che gli fa onore più di tanto premi ricevuti. Verso la fine del secolo scorso la piccola Albania era in piena dissoluzione. Il mulino di Tirana era stato assaltato come in una scena ottocentesca, la gente si aggirava attorno a quel grande edificio con il viso e gli abiti bianchi di farina. A Tepelene la caserma dell’artiglieria era stata svuotata, i cannoni portati via con i trattori perché i contadini pensavano che quel metallo poteva trasformarsi in attrezzi agricoli. E da un camion carico di kalashnikov fermo ai bordi della strada quelle armi uscivano per essere ripagate dai contadini con grandi angurie.
Intanto la guerriglia indipendentista del Kosovo organizzava le sue forze in montagna, su al confine con la ex Jugoslavia. Mo si arrampicò in quella zona ma nessun guerrigliero stranamente voleva confidarsi. Al contrario i ribelli che aveva incontrato in giro per il mondo avevano sempre voluto raccontare, trovare sostegno nei media stranieri, e più erano modeste le loro forze più contavano sull’aiuto di quelle parole. Scrisse un lungo articolo che raccontava quella guerriglia taciturna, furtiva.
Il testo non fu pubblicato perché Mo non poteva fallire, tornare a mani vuote. Invece aveva ragione lui, quella non era guerriglia tradizionale, patriottica, separatista. Quelle erano le avanguardie armate pronte a creare un stato di appoggio alla mafia balcanica, come si era visto chiaramente sul confine macedone, dove signori vestiti con il doppiopetto nero gessato e una specie di Borsalino in testa verificavano l’arrivo dei profughi loro clienti e davano conferma sul cellulare di completare il pagamento.
Mo tornò indietro, non tenne nemmeno copia di quel testo mai stampato. Non c’era nella sua testa il concetto di rivendicazioni. A suo modo aveva ragione Montanelli, il talento di Ettore era sprecato, a volte. Subentrò qualcuno decisamente più creativo. Il suo aiutante albanese fiutò al volo il nuovo arrivato. Rinunciò subito ai dollari di compenso che riceveva dicendo semplicemente: con questo non voglio lavorare. Riconosceva la etnia di «chi rimane a terra», senza avere letto Eugenio Montale.
Questo articolo è stato pubblicato sul sito professionereporter.eu
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