Dopo la pandemia, che ha portato a una crescita esponenziale, oggi gli orti urbani vivono una fase di maturità. Il 44 per cento dei capoluoghi italiani ha un orto urbano: tra questi ci sono Bologna, dove c’è il più grande d’Italia, e Milano
Banane e angurie a Milano, cime di rapa a Bologna. Questi sono solo alcuni dei risultati del cambiamento climatico sugli orti urbani delle grandi città italiane, che oggi vedono le loro aree verdi in una fase di maturità, dopo l’espansione registrata durante la pandemia.
«Grazie agli orti urbani, molti cittadini hanno imparato a vivere appieno la stagionalità dei prodotti e valutare in modo critico i metodi di coltivazione e i diversi elementi. È una conquista importante che ha un impatto sulla vita di tutti» racconta l’agronomo e guida ambientale Emilio Bertoncini.
La sostenibilità
Il fenomeno degli orti urbani non è recente: se ne parlava già nell’Ottocento e anche durante la Seconda guerra mondiale divennero molto comuni i cosiddetti “orticelli di guerra”, dove si coltivavano verdure e legumi per i ceti meno abbienti. Secondo l’analisi della Coldiretti e in base ai dati del rapporto Istat sul verde urbano 2021, negli ultimi anni in Italia si è registrata una crescita degli orti urbani del 18,5 per cento, che ha portato a superare i 2,1 milioni di metri quadrati occupati.
Gli italiani impegnati sono 1,2 milioni: la regione più virtuosa è l’Emilia-Romagna, con 704mila metri quadrati di orti urbani, seguita da Lombardia, Toscana, Veneto e Piemonte. Il vero volano è stata la pandemia: secondo la Coldiretti, in quel periodo quattro italiani su dieci coltivavano frutta e verdura in giardini, terrazzi e orti urbani «spinti dalla crisi economica generata dal Covid e dalla voglia di trascorrere più tempo all’aperto».
Non è un caso, perciò, che oggi il 44 per cento dei comuni capoluogo italiani abbia almeno un orto urbano. Ogni città ha la sua formula, con la quale il terreno viene affidato a cittadini, spesso riuniti in cooperativa, oppure ad associazioni con finalità sociali. Questione diversa è, invece, la sostenibilità.
Lo scorso 22 gennaio la rivista Nature Cities ha pubblicato il primo studio su larga scala che valuta l’impatto ambientale dell’agricoltura urbana, includendo gli spazi verdi di proprietà comunale, spesso affidati a privati, associazioni o imprese, per la produzione di frutta, verdura, erbe aromatiche e fiori in una città.
Il risultato è sorprendente ed evidenzia come l’impronta carbonica dei prodotti agricoli urbani sia circa sei volte superiore a quella dei raccolti delle aziende agricole tradizionali. «A mio modo di vedere bisogna ragionare su una scala più ampia, oltre il singolo prodotto: l’orto urbano ha un valore culturale che, forse, a livello complessivo, abbassa l’impronta carbonica di ciascuno, permettendoci di scoprire il senso di mangiare locale ed evitando generi da produzioni intensive» sottolinea Bertoncini. Uno spazio educativo utile per le giovani generazioni, che proseguirà anche in futuro. «In epoca Covid c’è stata una vera e propria esplosione del fenomeno, oggi la storia è diversa: ci sono stati orti in cui il lavoro di comunità è stato forte e ha unito le persone, altri che invece sono scomparsi. Ciò che resterà, anche in futuro, è la volontà di contatto con la terra, specie in un periodo ancora contraddistinto dalla crisi economica che morde e dall’inflazione» conclude Bertoncini.
Gli esempi
Ogni grande città italiana ha uno o più orti urbani che possono essere sociali, se dati in concessione dal Comune a privati cittadini o associazioni, o civici, se sono gli abitanti di una determinata area a recuperare spazi abbandonati. Tra i primi c’è sicuramente Bologna, la città con più orti urbani d’Italia che ospita anche il più grande, pari a 47 ettari (una grandezza paragonabile a 52 volte piazza Maggiore) nella zona di Borgo Panigale.
Un terreno dato in concessione alla cooperativa Arvaia (che significa “pisello” in emiliano), di cui è presidente Paola Zappaterra. «Siamo una cooperativa che comprende oltre 220 soci che versano una quota annuale, per coprire le spese di coloro che lavorano e di gestione del terreno (che conta 47 ettari affidati in concessione dal Comune, di cui 35 come superficie agricola), e in cambio ricevono frutta e verdure fresche prodotte, tutte le settimane.
La gestione, sotto tutti gli aspetti, non è semplice ma tutti i soci sono consapevoli dei rischi climatici e di non poter scegliere i prodotti: per esempio lo scorso anno a causa della siccità hanno ricevuto poche patate, mentre quest’anno è successo l’esatto contrario, grazie alle abbondanti piogge degli ultimi mesi» racconta la presidente di Arvaia.
Sono presenti quasi tutti gli ortaggi presenti nell’area della Pianura padana, «perché volevamo dare ai soci le stesse possibilità che dà loro il supermercato, al netto del cambiamento climatico, che incide sulla quantità e la qualità delle rese, e quindi in modo diretto sulla produzione agricola. Ad esempio, coltivazioni come i pomodori hanno avuto rese minime negli ultimi anni; per i fagioli il clima è troppo secco mentre per i fagiolini le temperature troppo alte hanno quasi spostato la loro fecondazione dalla primavera all’autunno. Altre piante, come le cime di rapa, invece, danno risultati sorprendenti, considerando soprattutto le notti fredde della pianura» continua Zappaterra.
Nonostante questo sia un momento di transizione, di passaggio tra l’inverno e la primavera, non mancano i prodotti tipicamente invernali «come radicchio, scarola, finocchio, rape rosse, porri, tutte le varietà dei cavoli, ma anche verze e cime di rapa. Prodotti tipici del periodo». Una storia diversa è quella del Giardino degli Aromi, in zona Affori a Milano.
«Quando siamo nati, nel 2003, abbiamo iniziato con un mandala per le erbe aromatiche e poi, grazie anche ad una scolaresca, avviato un vero e proprio orto comunitario, un libero orto fatto di scambio e relazioni sociali e oggi aperto a oltre 200 soci» dice Aurora Betti, una delle fondatrici dell'associazione onlus “Il giardino degli aromi”, che si trova all’interno dell'ex ospedale psichiatrico Pini e che opera nel suo parco con diverse attività, tra le quali anche percorsi di terapia orticolturale per persone svantaggiate.
«Abbiamo iniziato con spazi molto piccoli, poi ci siamo allargati e oggi abbiamo due orti nel parco e uno a Cormano, che vanno dai 20 ai 35 metri quadri. Adesso ci stiamo riorganizzando ma già ora i campi producono spinaci, insalate, legumi e piselli. In estate poi, non mancano tentativi di far crescere banane e angurie» evidenzia. In un contesto climatico difficile, è importante non sprecare l’acqua.
«Cerchiamo di risparmiarne quanta più possibile utilizzando la pacciamatura, fiori che allontanano gli insetti e cercando di consociare le piante giuste, come le melanzane e il basilico e non pomodori e cavoli, che chiedono molta acqua» sottolinea Betti.
La tutela della biodiversità è un fattore importante, come evidenzia il lavoro di alcuni ortisti «sul recupero di antiche varietà di frutta e ortaggi, dai fichi ai pomodori e ai ceci». A contare però è tutt’altro, come riporta Betti: «Conta soprattutto l’aiuto reciproco, che non è scontato: le discussioni non mancano ma per noi vale l’esperienza della condivisione, la compartecipazione con la natura».
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