Non in tutte le città gli amanti dello street food hanno vita facile. In diversi comuni italiani vigono ordinanze che nei centri storici vietano alle persone di mangiare cibo da strada o agli esercizi commerciali di somministrare prodotti non riconducibili alla tradizione alimentare locale
Migliaia di persone nelle nostre città mangiano quotidianamente street food. È il cibo da strada: preparazioni semplici, tradizionali o etniche, spesso consumate in piedi, senza bisogno di piatti e posate. È il modo più economico, meno formale e più rapido per nutrirsi, che si sia in vacanza o in pausa pranzo dal lavoro oppure semplicemente a passeggio nella propria città. Ma non in tutte le località gli amanti dello street food hanno vita facile.
Il divieto di street food
Nel corso del tempo, in diversi comuni italiani sono state emesse ordinanze tese a proibire, per tutto il giorno o solo in alcune fasce orarie, che le persone mangino un boccone nel centro storico, con la previsione di sanzioni per i contravventori. Il decoro urbano sarebbe messo a rischio da chi addenta cibi in strada, e non seduto nei locali.
Non sempre i giudici sono dello stesso avviso. È vero che «la semplice vista di persone le quali consumino in luogo pubblico alimenti» - ha affermato il Tar Lombardia nel 2013 (sentenza n. 1102/2013) - «può ben essere intesa, secondo un giudizio in sé del tutto rispettabile, come turbativa del gusto estetico». Tuttavia, «non pare che tale giudizio sia universalmente condiviso, in modo da giustificare un intervento radicalmente proibitivo».
In altre parole, non pare legittimo vietare e sanzionare qualunque condotta sia divergente rispetto alla personale concezione di estetica, quindi anche di decoro, dell'amministratore di turno. L’esercizio del potere non può essere del tutto discrezionale, perché altrimenti travalica nell’arbitrio. I sindaci possono emettere ordinanze «contingibili e urgenti» in situazioni impreviste e di particolare gravità, ma non utilizzarle come strumenti di ordinaria amministrazione.
La lesione del decoro cittadino - si potrebbe obiettare - è causata dal fatto che chi consuma cibo da strada talora lascia rifiuti in giro o si appoggia a monumenti o scalinate.
Quest’obiezione, fondata su innegabili comportamenti incivili di taluni, non considera che le tasse dovrebbero finanziare servizi resi dalle amministrazioni comunali in maniera efficiente. Se i servizi sono carenti - perché mancano cestini per i rifiuti che possano contenere quanto serve, panchine in numero adeguato per permettere alle persone di sedersi a mangiare, addetti a pulizia, sorveglianza e controlli degli spazi pubblici, anche al fine di sanzionare chi tiene condotte vietate - alla mancanza di tali servizi non si può supplire attraverso divieti che incidono su cittadini e turisti. Anche perché a essere più penalizzati poi sono coloro i quali nei centri cittadini non possono permettersi di mangiare in ristoranti e locali similari, e quindi devono rinunciare a visitarli.
I locali etnici
I divieti non sono solo per i consumatori. Ci sono anche ordinanze che in alcuni centri cittadini proibiscono agli esercizi commerciali la somministrazione di prodotti non riconducibili alla tradizione alimentare locale, impongono la vendita almeno di una certa percentuale di tali prodotti, precludono l’apertura di nuovi negozi “etnici” o che offrono più di una tipologia di prodotto (come i minimarket, spesso gestiti da stranieri). Si tratta delle ordinanze talora denominate “anti-kebab”, in considerazione del loro ambito di intervento.
La motivazione formale, anche in questo caso, è la tutela del decoro nelle zone di particolare pregio delle città. Peccato si trascuri di considerare che degrado o insicurezza non dipendono dal tipo di cucina offerta nei centri storici, ma dalle condizioni generali della città nel suo complesso: dalla pulizia delle strade alla tenuta dei giardini pubblici, dal rispetto delle regole di circolazione delle auto alla tutela della zona pedonale, dalla vigilanza delle forze dell’ordine al senso civico delle persone.
Ordinanze come quelle citate, pur essendo formalmente preordinate a garantire il decoro, come detto, spesso nascondono obiettivi diversi. Da finalità protezionistiche, per contrastare ciò che non sia qualificabile come tipico del luogo, proteggendolo dalla concorrenza dello “straniero”; al soddisfacimento di istanze di tipo discriminatorio sollevate da politici nazionali o manifestate dall’elettorato; al tentativo di porre un argine al cosiddetto “mordi e fuggi” dei turisti, che talora mette in crisi gli esercizi più tradizionali.
Ridurre l’offerta gastronomica, con regole tese ad annullare certe scelte individuali di domanda e offerta alimentari che un qualche amministratore reputi discrezionalmente non desiderabili, produce un danno non solo allo sviluppo economico, ma anche alla libertà delle persone. Il potere non può essere esercitato in modo tale da divenire un vero e proprio strumento di politica sociale, e con il perseguimento di obiettivi diversi da quelli dichiarati. Qualunque ingerenza da parte di un amministratore pubblico negli stili di vita delle persone dovrebbe sempre suonare come un campanello d’allarme. Suono che purtroppo spesso si perde nel chiacchiericcio confuso del dibattito quotidiano.
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