Si può essere cittadini e cittadine se radicati in un territorio, dove si decide di costruire la propria vita, frequentare la scuola, formare una famiglia. Questa è la cittadinanza in senso positivo e non difensivo che auspica Mauro Palma, ex garante delle persone private della libertà personale, ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e tra i promotori della campagna referendaria sulla cittadinanza. 

In pochi giorni l’iniziativa, che chiede di dimezzare – da 10 a 5 anni – il periodo di residenza necessario per chiedere la cittadinanza, ha raggiunto e superato le 500mila firme necessarie. Il termine per la raccolta firme, che avrebbe dovuto chiudere il 30 settembre, è stato anticipato alle 15 di oggi dal ministero della Giustizia per elaborare le firme digitali. Una grande partecipazione che per Palma è «un bisogno di reimpossessarsi della vita intesa come la intende il nostro impianto costituzionale», che la difende nella sua dignità.

Perché ha deciso di sostenere questo referendum?

Bisogna fare uscire questo tema da una logica di convenienza politica. Perché dietro ci sono le molte persone che attendono, che riconosciamo nella nostra vita, che vivono la normalità molto meglio di come la rappresenta il mondo politico. Il problema di accesso completo ai diritti non è tema di schieramento politico, ma di democrazia e civiltà di un paese. 

Dal punto di vista politico, ho letto il passo avanti sullo ius scholae di Forza Italia, ma è inadeguato rispetto al sentire sociale. Non vorrei che si arrivasse al punto in cui la dispersione e la carenza scolastica si possano ripercuotere sulla possibilità di essere pienamente cittadino. Invece il referendum in un certo senso diminuendo quei cinque anni restituisce aria e attenzione al tema.

Cosa comunica la grande adesione?

Il prevalere del bisogno di riaffermare la vita rispetto a un accordo pianificato strategico tra forze politiche. Secondo me c’è un bisogno di reimpossessarsi della vita intesa come la intende il nostro impianto costituzionale, che non difende soltanto la vita in sé in senso astratto, come tutte le convenzioni internazionali, ma la difende nella sua dignità, nel suo essere totalmente appartenente a una determinata collettività.

Qual è il paradigma su cui si fonda la legge sulla cittadinanza, che dopo 32 anni non si è ancora riusciti a modificare?

Si ispira, secondo me, a un vecchio concetto del termine cittadinanza. Da un lato è un sostantivo che indica una pienezza di diritti, ma può essere anche interpretato in maniera negativa, cioè diritti per chi è in e non diritti per è out. Ad esempio, le mura di una città in passato definivano una cittadinanza difensiva rispetto ai possibili aggressori. Noi dovremmo intendere la cittadinanza non con la lente dell’esclusione – definendo chi non è cittadino – ma dell’inclusione, considerando che chi è in un territorio deve avere tutti i diritti che le carte hanno stabilito.

Ricordo una vecchia distinzione di Stefano Rodotà che parlava non più dei diritti del citizen ma del denizen, cioè di quello che si trova ed è radicato in un territorio. Aver costruito la propria famiglia, la propria vita, la scuola rende cittadino in senso ampio. Quando i ragazzi (di nuova generazione con background migratorio, ndr) dicono «io qui mi sento» va letto come «anche se non me c’è scritto sulla carta d’identità, mi sento titolare di tutto ciò che questa collettività ha costruito».

Questa titolarità però nei fatti non è riconosciuta.

La titolarità è un sentimento che ha un doppio aspetto: l’aspetto di come io mi sento e l’aspetto di come la collettività mi classifica. Ed è questo l’elemento da superare. Ci sono poi due valori importanti che vanno anche al di là di questo referendum. La diversità come un valore da vivere e quindi un valore che fa crescere: se mi misuro solo con le persone uguali a me non cresco. Il secondo è l’inclusione, una parola un po’ dimenticata. Oggi sembra sempre ritornare la parola “esclusione”, ma più si include più si costruisce una società sicura, dal punto di vista dei diritti.

Come descriverebbe le politiche migratorie in Italia, dove persone che vi sono nate o cresciute vengono considerate straniere e migranti?

Le politiche migratorie di questo paese sono respingenti e difensive. Tendono a difendersi attraverso il respingimento e non attraverso l’inclusione. Questa idea del difendersi da ciò che è diverso e non si conosce è un qualcosa di antico, ma la contaminazione si è dimostrata ogni volta un elemento di crescita, di nuova conoscenza.

Sui giornali si scrive spesso l’origine di una persona che commette un reato. L’idea di ricostruire con l’origine e non con l’esistenza è arretrata e difensiva. È evidente la forte difesa di un mondo ricco rispetto alla povertà, che si pensa aggredisca il nostro benessere.

Questo referendum e gli altri depositati negli scorsi mesi come quello sull’autonomia dimostrano una chiara volontà di partecipazione, in tempi in cui la partecipazione e il dissenso vengono criminalizzati. Che operazione sta facendo la maggioranza con il ddl sicurezza?

Io ho grande fiducia nel parlamento, ciò che approva chiama anche la mia responsabilità, quella di aver permesso che certe idee si potessero affermare. Ma questo disegno di legge mi fa vergognare: è iper penalizzante, produttore di maggiore rischio di carcere, laddove dovrebbero essere introdotti altri strumenti. Ci sono alcuni punti totalmente inaccettabili: le conseguenze per l’interruzione di manifestazioni. Certo le interruzioni possono essere un problema, però è un lavoro da fare con i corpi intermedi, perché si tenga insieme sia il dettato costituzionale della libertà di manifestare sia il diritto delle persone a vivere la propria vita e accedere ai servizi.

Il secondo punto molto grave è che le proteste in carcere, anche in forma passiva e pacifica, vengono punite come se il non agire costituisse di per sé atto criminale. Mentre il principio dell’atto criminale è l’atto positivo. Con la presenza di molti stranieri nelle carceri, molte volte si può non capire un ordine ricevuto e l’unico modo che ha uno straniero, che parla un’altra lingua, o una persona che socialmente rappresenta una minoranza, è quello di protestare non facendo. Poi, trovo incredibile la norma che consente agli agenti di polizia penitenziaria di portare con sé l’arma fuori dal servizio. Secondo l’idea che l’arma sia sinonimo di maggiore sicurezza. Se non altro la realtà sociale Usa, con più reati e più carcere, dovrebbe averci fatto capire quanto sia sbagliata.

Questi elementi che tipo di società restituiscono?

Una società molto rancorosa, chiusa, timorosa, che sembra sempre risentirsi assediata. Poi però contemporaneamente ci sono le firme e i referendum, un altro protagonismo, qualcosa che dice “non siamo tutti così”, “non è questa la nostra rappresentazione”. Un lumicino in un presente un po’ tetro, però credo che vadano colti i piccoli segni perché i mutamenti sociali non avvengono con grossi elementi.

Purtroppo siamo siamo immersi in uno scenario geopolitico in cui l’unica forma di derimere i conflitti è la guerra. La guerra diventa linguaggio, diventa pensiero ed espressione. Questo rende molto difficile dare corpo a quei lumicini che vedo.

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