- Per la legge ebraica valeva infatti principio secondo il quale nei cibi era insito un grado di purezza che li rendeva adatti, o inadatti, a essere consumati. Il cristianesimo rifiuta l’idea che di cibi di per sé puri o impuri
- I cristiani introdussero la lunga sequela delle regole legate a digiuno e astinenza, che cambia anche il loro rapporto con il consumo della carne
- Una bistecca non è impura in sé, è potenzialmente pericolosa perché prima di tutto è segno di violenza e di morte, in secondo luogo in quanto si tratta di un simbolo di fisicità e sessualità
Gli inizi del cristianesimo mossero da luoghi nei quali il consumo della carne animale era dettagliatamente disciplinato. La novità del messaggio portato da Gesù di Nazareth aveva bisogno di evidenziare la propria originalità anche in relazione alle regole della tavola.
Nella storia delle religioni, questo non è certo un atteggiamento insolito: l’esigenza di allontanarsi da precetti propri di fedi precedenti e/o concorrenti si vede, anzi, piuttosto di frequente. Il motivo è semplice: se una credenza contraria alla mia, con la quale per qualche motivo sono in conflitto o in opposizione, dispone un determinato obbligo, io cercherò di non osservarlo e di distinguermi seguendo norme diverse.
Tale comportamento si è più volte riferito al legame del credente (non solo cristiano) con il consumo di bistecche.
Precetti ebraici
Alla luce del luogo e della cultura entro il quale ebbe la propria prima diffusione, il cristianesimo prese esplicitamente le distanze dalle regole alimentari ebraiche anche per affermare la propria originalità e diversità.
La legge ebraica, infatti, disponeva che l’alimentazione dovesse sottostare a regole precise, basate sul principio secondo il quale nei cibi era insito un grado di purezza che li rendeva adatti, o inadatti, a essere consumati.
Per questa ragione alcuni animali erano del tutto interdetti, altri commestibili solo se trattati secondo assai dettagliate operazioni rituali, indispensabili per purificarli.
L’inosservanza del protocollo determinava l’impossibilità di nutrirsi degli alimenti mal-trattati. Uno di questi cerimoniali derivata dal divieto comunicato da Dio a Noè relativamente al consumo della carne con il sangue («Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue», Genesi 9, 4).
La proibizione sarebbe stata poi rinnovata pure nel Libro del Deuteronomio (12,23): «Tuttavia astieniti dal mangiare il sangue, perché il sangue è la vita; tu non devi mangiare la vita insieme con la carne».
Il dissanguamento
Su queste basi scritturali si fonda la pratica ebraica del dissanguamento degli animali prima della lecita consumazione.
Quanto alle proibizioni assolute, esse riguardano gli animali non ruminanti e con lo zoccolo non spaccato (per esempio, il maiale che ha lo zoccolo spaccato ma non rumina, il cammello che rumina ma non ha lo zoccolo spaccato, il coniglio, il cavallo), frutti di mare, anguilla, caviale (in quanto privi di pinne e squame), i rettili e la maggior parte degli insetti.
Novità cristiane
Tali regole si ispiravano a un principio che Gesù rifiutò con decisione, come appena anticipato e ben testimoniato nel Vangelo di Marco (7, 15).
Purezza e impurità non erano legate agli alimenti, ma all’attitudine e al comportamento di chi vi si accostava per mangiarlo: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che entrando in lui possa contaminarlo; sono le cose che escono dall’uomo quelle che contaminano l’uomo».
Gli Atti degli Apostoli e le Lettere di Paolo avrebbero più volte ripreso il tema dell’infondatezza di una distinzione tra cibi puri e cibi immondi.
Il passo più significativo in questione è quello che vede protagonista l’apostolo Pietro. Affamato e pronto al pasto, egli ebbe una visione: una specie di tovaglia calata dal cielo, nella quale erano contenuti «ogni sorta di quadrupedi e rettili della terra e uccelli del cielo». Una voce lo stimolò a uccidere e mangiare. Pietro si schermì, rispondendo di non avere mai mangiato «nulla di profano e di immondo». La voce miracolosa, però, gli rispose: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano» (Atti 10, 9-15).
Pietro e Paolo, come molti dei loro compagni di fede, predicarono il Vangelo non solo nel mondo ebraico, ma anche tra altre culture, quella greca e quella romana in particolare, vista la loro preminenza nel primo secolo dell’èra cristiana.
Dovettero così prendere le distanze dai riti di quelle culture religiose, le quali prevedevano entrambe il sacrificio di animali e il consumo delle loro carni.
Consapevolezza e istinto
Non sappiamo se questa fu una decisione presa con consapevolezza o, per così dire, seguendo l’istinto: i primi discepoli giudicarono che se i Romani immolavano gli animali alle proprie divinità, loro dovevano comportarsi in maniera completamente diversa. Non bastava lasciare in pace gli animali, serviva anche introdurre uno schema comportamentale originale, quello del digiuno rituale, sconosciuto alla cultura romana. Limitazioni permanenti o temporanee alla mensa erano in quest’ultima legate solo alle abitudini personali, non a motivazioni religiose.
I cristiani, invece, introdussero la lunga sequela delle regole legate a digiuno e astinenza, comportamenti posizionati all’opposto dell’offerta devozionale di animali, nota già nella Grecia classica.
Là il sacrifico si faceva per onorare, espiare, prevedere il futuro. Uno dei casi più noti è quello dell’ecatombe (letteralmente «sacrificio di cento buoi»), descritta nel dettaglio da Omero in vari passi sia dell’Iliade, sia dell’Odissea.
È davvero pura la carne?
Prendere le distanze rischia di aprire strade inattese. Porre l’accento non sulla carne da mangiare, quanto sulla disposizione d’animo di chi se ne nutriva servì ai cristiani sì per distinguersi, ma anche per introdurre nuove regole, relative soprattutto alla carne. Perché proprio lei?
Va detto che tali norme non miravano (e non mirano) alla demonizzazione di un alimento in quanto tale, ma a richiamare l’attenzione sulle possibili conseguenze del suo consumo.
Una bistecca non è impura in sé, è potenzialmente pericolosa perché prima di tutto è segno di violenza e di morte (prima del pasto c’è l’uccisione di un animale), in secondo luogo in quanto si tratta di un simbolo di fisicità e sessualità.
Carne e sesso
Le carni rosse in particolare, secondo un pensiero medico destinato a durare a lungo, stimolavano appetiti non legati alla mensa, ma ad altra carnalità. Il punto di vista viene riassunto con efficacia da San Girolamo (347-420), fermamente convinto che nello stomaco risiedesse uno dei segreti della castità. Lo scrisse in una lettera datata 355 e destinata alla giovane vedova Furia. Girolamo voleva convincere la ragazza a non risposarsi, in modo da fuggire i pericoli del piacere dei sensi, riuscendo a vivere «non carnalmente».
Per eliminare il desiderio, Furia avrebbe innanzitutto dovuto smettere di bere vino, così come di consumare cibi caldi, certo la carne, ma anche – scrisse il futuro santo – «quei legumi che gonfiano e appesantiscono».
Proprio nell’astinenza da certi tipi di legumi stava uno dei segreti della castità, aggiungeva Girolamo: molti infatti pensando bastasse tenersi alla larga dalla carne non ci prestavano attenzione, se ne abbuffavano e lasciavano così spazio agli appetiti sessuali.
L’esempio dimostra effettivamente come il problema non stesse nel cibo, quanto nei suoi effetti: nessuno si sognerebbe infatti di condannare un fagiolo.
© Riproduzione riservata