Degrado e criminalità assediano la capitale italiana dell’acciaio, abbandonata a sé stessa dalle istituzioni. La magistratura indaga sugli amministratori pubblici e rivela i rapporti tra la politica e i clan locali
Lungo la statale 106 che collega Taranto a Reggio Calabria la scena si ripete, come nel 2012 e nel 2015. Ma è il 19 gennaio del 2024. Decine di autoarticolati sfilano in corteo bloccando la strada che Attilio Bolzoni ha definito «il corpo del reato più lungo del mondo».
Gli imprenditori dell’indotto dell’ex Ilva stanno protestando da qualche giorno perché, in seguito alla decisione del governo di portare la fabbrica verso l’amministrazione straordinaria, potrebbero vedere sfumare i crediti vantati nei confronti di Acciaierie d’Italia.
«Sono a rischio 120 milioni di euro», dicono gli aderenti all’Aigi, una sorta di Confindustria parallela tutta locale. Siamo pronti a tutto per riavere i nostri soldi, a bruciare i nostri camion e anche le portinerie della fabbrica», afferma uno di loro, Vladimiro Pulpo.
Qui, a Taranto, il volto dello Stato lo si intravede ogni qualvolta viene messa in discussione l’esistenza della più grande acciaieria d’Europa che ancora tiene in piedi, in parte, quel che resta del sistema industriale italiano.
È in quei momenti che calano in città i ministri, i sottosegretari e i boiardi. Si approvano le leggi, più di una decina in dodici anni, che garantiscono la licenza di continuare a inquinare. È in periodi di crisi come questo che della “città dei due mari” si parla e, molto spesso, si straparla.
Mentre i cronisti delle televisioni nazionali “scendono” al Sud, l’Italia scopre che la terza città più importante per estensione del Meridione è strategica, così come l’acciaio che qui viene prodotto da 60 anni; ora, però, in quantità molto minori rispetto al passato. C’è aria di dismissione, per dirla con il titolo del romanzo di Ermanno Rea che racconta l’epopea dell’acciaieria di Bagnoli.
Sogni e diritti
«Guardati attorno. E prova a farlo con gli occhi di un bambino. Tra palazzi abbandonati, compresi quelli dell’antica nobiltà cittadina, il muro alto dell’Arsenale militare che cancella alla vista uno dei più importanti e storici affacci a mare della città. La sede del Centro per l’impiego chiusa perché inagibile dallo scorso aprile. Le aree demaniali abbandonate. Non è solo l’ex Ilva», racconta Maristella Bagiolini, una giornalista in trincea sul territorio da trent’anni: «È nell’abbandono e nella bellezza sfregiata che si è radicata la cattiva coscienza collettiva del territorio. E la coscienza è una cosa seria che ha bisogno di radici ma anche di essere educata».
Eppure, continua Bagiolini: «la mission educativa dello Stato a Taranto è venuta meno e rischia di peggiorare con il progetto di autonomia differenziata. Ma sì, chiudiamo altri asili e altre scuole!». E poi conclude così: «Quindi i giovani o emigrano, o resistono, o capitolano di fronte alle promesse che ingrassano tutte le campagne elettorali. È questo il tradimento più grande che si consuma sulle sponde dello Ionio».
Stato parallelo
La contraddizione, qui, è nell’attuale comandante dei vigili urbani di Taranto – in passato anche responsabile dell’hotspot per i migranti – Michele Matichecchia, per cui la procura di Taranto il 29 dicembre scorso ha chiesto gli arresti domiciliari, poi non convalidati dal gip, perché accusato insieme ad altri dirigenti del comune di aver nei fatti contribuito a truccare un appalto di sette milioni di euro per l’assegnazione dei servizi cimiteriali. Matichecchia, nonostante le indagini, è ancora al suo posto.
Il sindaco Rinaldo Melucci ha invece revocato l’incarico del direttore generale del comune, Carmine Pisano, anche lui coinvolto nell’inchiesta che vede tra gli indagati uomini vicini al clan Sambito egemone nel quartiere Tamburi (il più vicino allo stabilimento ex Ilva e dove ha sede il cimitero in questione).
Il sindaco ha però precisato in una nota che il provvedimento «non ha carattere assolutamente sanzionatorio, quanto piuttosto è stata ritenuta concordemente opportuna nell’interesse delle parti coinvolte ed a tutela dell’immagine di imparzialità dell’amministrazione». Pisano però è rimasto in sella come dirigente dello sviluppo economico. Tant’è.
Il volto della macchina statale, in questo pezzo di Puglia, si mostra anche nei dirigenti della direzione ambiente del municipio accusati dai detective della squadra mobile di Taranto che hanno condotto le indagini di non aver posto in essere nessun controllo e, di conseguenza, mai denunciato le attività criminali dei necrofori vicini alla malavita che chiedevano il pizzo ai parenti dei morti.
Lo Stato che coincide con l’antistato si è manifestato qualche giorno fa anche nel comune di Statte che con il capoluogo condivide i confini dello stabilimento di Acciaierie d’Italia, aggiungendo però al perimetro del suo centro abitato anche una delle discariche per rifiuti speciali più grandi d’Europa, l’Italcave, altre discariche dei rifiuti provenienti dall’ex Ilva, e un deposito di scorie radioattive che si trovano all’interno di un capannone fatiscente, l’ex Cemerad.
Qui, a Statte, il 15 gennaio, la Guardia di Finanza ha arrestato il sindaco Francesco Andrioli e due assessori della sua giunta, su richiesta della procura distrettuale antimafia di Lecce. In carcere, è finito anche Lucio Rocco Scalera, (fratello del consigliere regionale Antonio, non indagato) dirigente considerato il dominus della municipalizzata di Taranto, Kyma Ambiente, che gestisce la raccolta dei rifiuti solidi urbani.
Cognomi illustri
Gli inquirenti contestano agli amministratori i legami intrattenuti con il clan egemone nel territorio. Il cognome che emerge nelle carte giudiziarie, Modeo, è “pesante”, perché rimanda alla mente il triennio 1989-1991 durante il quale Taranto fu funestata da una guerra di mala fratricida, quella che vedeva contrapposti i fratelli Modeo appunto, e che lasciò sull’asfalto in pochissimi anni quasi 200 morti.
Per questo, il sindaco di Statte si vergognava a farsi vedere in giro con Giulio Modeo, figlio di Antonio, boss morto ammazzato su ordine dei fratellastri e detto “il Messicano” per una vaga somiglianza con l’attore Charles Bronson.
Ma non disdegnava, in tutti i casi – come raccontano le carte dell’inchiesta – di ricevere i voti del clan i cui affiliati ricevevano in cambio dell’appoggio politico: buoni pasto, piccole somme di denaro, biglietti per le giostre e schede carburanti. Oltre a promesse di posti di lavoro nelle aziende municipalizzate e favori per l’assegnazione di appalti.
«Ti rendi conto? Qui la malavita chiede i biglietti delle giostre», chiosa una fonte investigativa. È anche su questo che si basa il welfare parallelo di Taranto. «Le ultime inchieste rappresentano un fatto grave. Serve, però, una consapevolezza diffusa, condivisa da tutte le forze politiche, che tenga fuori mafia e corruzione dai momenti di confronto elettorale e dall’amministrazione dei nostri territori», dice l’avvocato Remo Pezzuto, referente provinciale di Libera, grazie al cui impegno, dopo anni di attendismo e soltanto nel novembre scorso, il comune di Taranto ha approvato il regolamento sull’assegnazione dei beni confiscati.
Sono 82 i beni presenti in città, «ma assistiamo purtroppo inermi all'abbandono, inutilizzo o rioccupazione da parte delle stesse famiglie a cui sono stati confiscati dalla magistratura», conclude Pezzuto. È lo Stato che si confonde con l’antistato, dove i rapporti tra la mafia e la politica si mescolano, spesso, confondendosi a vicenda.
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