Non serviva essere un dissidente del regime per abbandonare la Siria qualche anno fa, non basta la nostalgia di casa per tornarci oggi. Da giorni, gioia e paura si mescolano dentro il corpo di rifugiato siriano. È una liberazione vedere i ribelli giocare a calcio con la testa di Hafez al Assad dopo aver decapitato le varie statue costruite nelle città durante gli ultimi sessant’anni, mentre suo figlio Bashar è costretto a trovare rifugio a Mosca.

Allo stesso tempo, quella sensazione di euforia è frenata dall’impossibilità di sapere come si comporteranno in futuro nuovi governanti, se davvero hanno imboccato la strada della moderazione come dicono o se lasceranno riaffiorare il passato fondamentalista. Ramy, nome di fantasia, per il momento preferisce aspettare e vedere. E non parlare di politica.

Il rifugiato modello

Ad anticipare la sua storia prima che lo incontrassimo è Shaza Saker, nata in Siria e cresciuta in Italia dove diventa vicepresidente della Fao Cop e fonda Hummustown, organizzazione no profit pensata durante il picco della guerra civile siriana per offrire un’opportunità a chi scappava da quel contesto. Dal 2017, giorno in cui ha aperto il primo punto a Roma, si è espansa fino alla recente apertura del ristorante, nella zona sud della capitale. Può sembrare paradossale vista l’attività, ma qui il cibo non è il protagonista assoluto. L’intento principale è aiutare chi fugge dalla guerra a integrarsi in una nuova realtà, diversissima da quella a cui sono abituati a conoscere. Con mutabbal batata, falafel e yalangee è sicuramente più facile.

Ramy è il factotum di questo luogo che è anche un ristorante. Shaza lo definisce “un rifugiato modello”, e basta poco per comprendere il motivo. Dopo aver studiato graphic design, lascia Damasco non tanto perché contrario al regime di Assad quanto piuttosto perché dopo lo scoppio della crisi le speranze per costruirsi una vita dove è nato e cresciuto erano seppellite sotto le macerie di casa sua. Non conosce chi l’abbia bombardata, ma il mandante sì ed è lo stesso che ha governato per decenni il suo paese. Si sposta così a Beirut, dove rimane per sette anni per poi arrivare in Italia grazie a un corridoio umanitario.

«La via più facile» scherza Shaza paragonando l’inferno a cui è sottoposta la maggior parte dei profughi che fugge via mare. Era il 2018, le uniche due lingue che Ramy conosceva erano l’arabo e l’inglese, ma nel giro di un anno e mezzo impara perfettamente l’italiano, conquistandosi la fiducia della cofondatrice e dei clienti. Insomma, rinasce. E chi ci riesce, difficilmente torna indietro.

Ricordi di casa

A porsi la domanda se sia il caso di rimpatriare sono la maggior parte dei milioni di rifugiati siriani. Ad avere una risposta, neanche così certa, sono però solo quelli che non si sono allontanati più di tanto e vivono in una tendopoli in Turchia o in Libano. Non le condizioni migliori, per cui prevale la naturale suggestione di rivedere la propria casa. Ma chi ne ha trovata un’altra, magari in Europa come Ramy, tutta questa fretta non ce l’ha. «Appena può, manda i soldi alla madre e alla sorella che sono ancora lì» spiega Shaza. «Gli dicono di restare in Italia. Non c’è alcun richiamo delle famiglie siriane, tornare non è una possibilità».

Quando ci troviamo faccia a faccia con Ramy, seduti a un tavolo di Hummustown, prima di rispondere alle domande ci chiede giusto cinque minuti di attesa: ha delle faccende da sbrigare per il ristorante, la sua priorità assoluta. Si intuisce che la voglia di parlare dell’attualità è poca, mentre rimane felicemente stupito quando deve indicare su quale piatto gli ricorda più casa. Ci riflette qualche istante prima di dire la molokhia, una pianta simile alla malva da cui si ricava una zuppa da unire con la carne. Poi ritratta a favore della mamounia, un dolce con semola, formaggio, cannella e noci, buono a colazione o come dessert. «Da quando sono andato via, non l’ho più mangiato».

Solo dopo ci spiega che per i siriani non esiste nemmeno il tempo per godersi la libertà conquistata dopo anni di oppressione. La paura per ciò che potrebbe accadere non risiede solo nel jihadismo professato per anni dai nuovi governanti di Damasco, ma anche nelle intenzioni dei vicini regionali, Turchia e Israele, che vogliono sfruttare il momento per raggiungere i rispettivi interessi. Tutto o quasi come prima, dunque. Quando Shaza gli ha chiesto se avesse voglia di tornare, Ramy ha avuto pochi dubbi: «Non credo nella favoletta che ci stanno raccontando per ritrovare la Siria che ho lasciato».

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