Dopo l’omicidio del colonnello Russo, Mario Francese si impegnò nella ricerca del possibile movente collegando il delitto con gli interessi di "Cosa Nostra" per i lavori relativi alla diga Garcia. Emerse così il coinvolgimento dei titolari e dei tecnici dell’impresa Lodigiani, gli imprenditori Rosario Cascio e Giuseppe Modesto, l’autotrasportatore Biagio Lamberti e gli esponenti mafiosi Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella
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Mario Francese nei mesi successivi si impegnò intensamente nella ricerca del possibile movente dell’omicidio del colonnello Russo, individuandone le connessioni con gli interessi di "Cosa Nostra" per i lavori relativi alla diga Garcia.
In correlazione con l’inchiesta sull’assassinio dell’ufficiale, emersero significative vicende in cui erano coinvolti i titolari ed i tecnici dell’impresa Lodigiani, gli imprenditori Rosario Cascio e Giuseppe Modesto (il secondo dei quali era subentrato al primo nei subappalti concessi dall’azienda milanese per le forniture relative alla diga Garcia), l’autotrasportatore Biagio Lamberti (figlio di Salvatore Lamberti, implicato, insieme a don Agostino Coppola, nel tentato omicidio dell’allevatore Francesco Randazzo), e gli esponenti mafiosi Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella (cui venivano attribuite condotte di violenza privata nei confronti del Cascio).
Il giornalista iniziò a delineare con nettezza di contorni il suddetto contesto nel seguente articolo, pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 3 dicembre 1977:
L'inchiesta sull'assassinio del col. Russo.
Arrestato Lodigiani il costruttore della diga "Garcia".
Manette anche per due ingegneri (favoreggiamento) e due imprenditori di Camporeale e Borgetto (violenza privata)
Il giudice istruttore Pietro Sirena che indaga sul duplice omicidio del colonnello Russo e dell'insegnante Filippo Costa, assassinato a Ficuzza la sera del 20 agosto scorso, ha fatto arrestare la notte scorsa cinque persone.
A Roma, sono stati arrestati gli ingegneri Vincenzo Lodigiani ed Ero Bolzoni; a Messina, l'ingegnere Mario Gazzola, tecnico della Lodigiani; a Palermo, l'imprenditore Giuseppe Modesto, titolare della società "Inco" ed ex sindaco di Camporeale; a Borgetto, Biagio Lamberti, figlio di "Totò Lambretta", implicato, con padre Agostino Coppola nel tentato omicidio di Francesco Randazzo, e costituitosi alcune settimane fa, dopo tre anni di latitanza.
Il giudice istruttore Sirena ha imputato di favoreggiamento, come i primi cinque, ma con mandato di comparizione, Giuseppe Lodigiani, zio di Vincenzo, altri due tecnici della stessa impresa lombarda, gli ingegneri Riberio Braccaletti e Eduardo Ratti e l'imprenditore di Montevago, Rosario Cascio.
Comunicazioni giudiziarie, perché indiziati di associazione a delinquere, sono state mandate a tre luogotenenti di Luciano Liggio, i corleonesi Salvatore Riina (sposo segreto - il rito fu officiato dal solito don Coppola - della maestrina Antonietta Bagarella), Bernardo Provenzano, uno dei superstiti della faida corleonese del 1959, Leoluca Bagarella, fratello della maestrina e di Calogero, scomparso dal 1969, al presunto capomafia di Roccamena Bartolomeo Cascio, a Salvatore Lamberti (già all'Ucciardone per il caso Randazzo di Giardinello, assieme a padre Coppola ed altri), e, infine, ai fratelli Giuseppe e Vincenzo Giambalvo e a Leonardo Delsi.
Questi, oltre che di associazione per delinquere sono indiziati anche di violenza privata nei confronti dell'imprenditore Cascio e dell'affittuario della cava Mannarazza di Roccamena, Rosario Napoli.
L'inizio dell'istruttoria ha così convalidato le indagini svolte dai carabinieri, squadra mobile e criminalpol guidate dal maggiore Antonio Subranni, il successore del colonnello Russo nel comando del nucleo investigativo dell'Arma.
Un lavoro, che è stato seguito costantemente dai colonnelli Satariale e Buono, oltre che dal capo della criminalpol Bruno Contrada, che ha impegnato gli investigatori nel palermitano e in una continua spola con Messina, Roma e Milano.
Come questo giornale rilevò con una serie di servizi pubblicati a partire dal 2 agosto scorso, cioè 18 giorni prima dell'uccisione del col. Russo, il primo attrito tra le cosche mafiose del retroterra avvenne attorno alla diga Garcia il cui appalto, aggiudicato dall'impresa milanese Lodigiani, provocò una corsa per l'aggiudicazione di remunerativi subappalti.
Al momento del suo insediamento a Garcia, sede del quartiere-base dell'impresa, i Lodigiani avevano, anche su base di accordi politici e sindacali, ripartito per zone i privilegi (subappalti, forniture e manodopera) derivanti dalla costruzione della superdiga.
Non avevano previsto, nel programmare e realizzare questa equa ripartizione per territori, la "zampata" violenta della mafia con la "m" maiuscola.
Si cominciò il 19 luglio con Rosario Napoli, il quale aveva ottenuto dall'impresa lombarda un subappalto per scavi e riporto di terra sul letto della diga e l'impegno a fornire materiali di cava. Napoli fu "invitato" a lasciare la cava Mannarazza dopo un vano tentativo di rialzo dei prezzi (la cava era in affitto).
Reagì acquistando un terreno per farsi una cava tutta per sé, ma il 24 luglio un "commando" tentò di ucciderlo assieme ad un figlioletto e ad un dipendente mentre usciva dalla cava. I tre rimasero vivi. Dopo Napoli, rifugiatosi sotto scorta in Svizzera per paura di morire, fu il turno dell'imprenditore Rosario Cascio, che aveva già costruito il cantiere-base di Garcia per conto della Lodigiani e che aveva avuto concessi subappalti per forniture e lavori di sbancamento. Per rendere più convincenti le loro imposizioni, la mafia fece ricorso agli attentati. A Milano saltarono gli uffici della Lodigiani; a Garcia quelli dell'imprenditore Rosario Cascio.
Di fronte agli atti di terrorismo e alle intimidazioni i Lodigiani dovettero rivedere frettolosamente i loro programmi. Furono così costretti ad estromettere dai lavori Napoli e Rosario Cascio. A Cascio subentrò la "Inco". Sembra che i due si fossero rivolti al colonnello Russo che, per quanto in licenza di convalescenza, puntò su Garcia e la Lodigiani per vedere come stavano le cose. Gli fu fatale. La mafia non gli perdonò questo intervento.
Uno “scontro” tra imprese
Mario Francese continuò ad approfondire l’argomento nell’articolo di seguito riportato, che apparve sul "Giornale di Sicilia" del 20 dicembre 1977:
Nuovo rapporto dei carabinieri sulla causale del delitto
Afferma che: Russo sostenne un'impresa
e i concorrenti lo uccisero. Questa la tesi ora al vaglio del magistrato
Si studiano i bilanci della INCO e dell'IMAC - Sullo sfondo rimane la mafia del Belice
Un rapporto aggiuntivo dei carabinieri e l'interrogatorio all'Ucciardone di Biagio Lamberti, accusato di violenza privata, hanno caratterizzato gli ultimi sviluppi dell'istruttoria sul duplice omicidio di Ficuzza del colonnello Russo e dell'insegnante Filippo Costa. Lamberti sarà interrogato entro mercoledì, alla presenza del suo difensore, avv. Giuseppe Cottone.
Il rapporto aggiuntivo dei carabinieri riguarda la "Inco", la società di "inerti o conglomerati" di Roccamena che, fondata il 26 giugno 1970, con capitale iniziale di un milione e duecentomila lire, nel giro di sei anni (vedasi bilancio societario del 31 dicembre 1976), oltre al siluramento dei soci iniziali, fino a divenire una società della famiglia del geometra Giuseppe Modesto, dipendente dell'amministrazione provinciale, ha fatto registrare un'attività di oltre due miliardi. E naturalmente, il capitale sociale iniziale entro il 2 luglio 1974, passò dalla modesta cifra di un milione e duecentomila lire a ben 200 milioni di lire. Un passo forse più lungo della gamba, tenuto conto dei programmi dell'azienda, dettati non da sani criteri amministrativi, ma basati su fattori contingenti.
I carabinieri hanno assodato che la "Inco", a fine 1976, nonostante un contributo di 200 milioni della Cassa per il Mezzogiorno e vistosi finanziamenti bancari, si era trovata assillata da una perdita di esercizio di oltre 63 milioni, ai quali si andavano ad aggiungere quelle accumulate negli anni precedenti, per l'importo di altri 71 milioni.
Le perdite di esercizio o le pressanti scadenze debitorie a breve scadenza, alla fine del 1976, fecero trovare la "Inco" in brutte acque. Già alla fine del 1975, illustrando il bilancio dell'annata, il geometra Modesto aveva previsto che il termine delle opere autostradali in Sicilia costringeva la società a rivolgere la sua attenzione verso i centri terremotati del Belice. «Si è perciò ritenuto opportuno - aveva detto Giuseppe Modesto - diversificare, sin d'ora, l'attività della società, onde evitare in futuro una crisi per insufficienza di domanda». Aveva quindi proposto, e successivamente realizzato, un programma di trasformazione: acquisto di un "convoglio" di motobetoniere per trasportare a distanza - nelle zone del Belice - conglomerati cementizi e di calcestruzzo.
Un programma centrato sul Belice, anche per un altro motivo: l'esenzione decennale da ogni imposta diretta sul reddito per nuove iniziative nelle zone terremotate.
Ma i piani della "Inco" non avevano preso in considerazione la realtà che, da quasi cinque anni, si era consolidata nelle zone terremotate dove, appunto, l'esenzione fiscale, aveva richiamato grosse imprese del Nord e del centro Italia. Ed al servizio di queste imprese si era posto da anni il presidente della "Imac", Rosario Cascio che, quasi ad emiciclo, nelle zone terremotate, aveva piazzato cinque grossi cantieri, tutti specializzati nella produzione di conglomerati cementizi e di calcestruzzo.
La "Inco", così, non trovò spazio nella Valle del Belice per la potenza della "Imac" e di Rosario Cascio. Le domande, nel 1976 si ridussero e le vendite assommarono al 46,60 per cento rispetto all'anno precedente. Una mazzata, perché la società si trovò nella condizione di dovere sostenere un grosso sforzo per ridurre le perdite, al punto di fare ricorso, per la prima volta, al fondo di riserva.
Fallito il "piano Belice", per la potenza di Cascio, la "Inco" si rivolse ai Lodigiani e puntò tutto sulle forniture per la costruenda diga. Nello stesso tempo, il geometra Modesto rivolse la sua attenzione all'Africa. Alla fine del 1976, comunicò all'assemblea dei soci che erano "in corso contatti con rappresentanti esteri per perfezionare un programma di lavoro all'estero, che si presenta di notevole interesse per il futuro della società"
La "Inco" così si trovò per altre due volte (dopo il fiasco nel Belice) sulla strada di Cascio e della "Imac". Questa società, infatti, aveva progettato il trasferimento di uno dei suoi cantieri del trapanese ad Iberia, nella punta meridionale della Spagna. Di questo nuovo cantiere, il colonnello Giuseppe Russo, oltre che socio, sarebbe stato rappresentante legale, una volta ritiratosi dall'Arma. D'altra parte, è noto che Cascio e la "Imac" erano già da un anno i più grossi fornitori di conglomerati e di inerti della Lodigiani per la diga Garcia.
A questo punto, secondo i rapporti di denuncia, per uscire dalla drammatica impasse, dal momento che sul piano della concorrenza alla "Imac" la "Inco" avrebbe avuto partita persa, la società di Modesto avrebbe scelto la via della forza.
Russo sarebbe stato quindi la vittima di questo "scontro" che la "Inco" avrebbe potuto vincere soltanto facendo ricorso alla violenza. La "Imac" fu sfrattata da Garcia e dalle forniture alla Lodigiani e costretta a battere in ritirata nella Valle del Belice.
La "Inco", a sua volta, era decisa a dare battaglia alla società rivale anche in Spagna. Il colonnello Giuseppe Russo si rese conto dei personaggi che spalleggiavano i piani della "Inco": personaggi che aveva perseguito per una serie di gravi reati (sequestri di persona compresi) e per anni. Piombato, in un giorno feriale, in un cantiere della "Imac" trovò tutto fermo e non ci volle molto per capire il perché. Il suo intuito gli è costata la vita.
Il colonnello voleva aiutare qualcuno?
Proseguendo nella sua ricerca della verità sull’omicidio del colonnello Russo, Mario Francese ne individuò esplicitamente il possibile movente nell’intervento effettuato dalla vittima per tutelare la posizione dell’imprenditore Rosario Cascio, nei cui confronti l’impresa Lodigiani aveva proceduto ad una anomala revoca dei subappalti per effetto di quattro attentati verificatisi rispettivamente nella sede milanese dell’azienda ed in alcuni cantieri; secondo la ricostruzione esposta dal giornalista, l’ufficiale aveva così posto in crisi i piani dell’organizzazione mafiosa operante tra Roccamena, Borgetto e Corleone, la quale tendeva ad assicurarsi il predominio negli appalti legati alla diga escludendo imprese come quella di cui era titolare il Cascio.
Questa interpretazione degli eventi fu esposta da Mario Francese nel seguente articolo, pubblicato sul "Giornale di Sicilia" del 29 dicembre 1977:
Secondo round dell'istruttoria per il giallo di Ficuzza. Una ‘anonima impresari’ nel delitto del col. Russo.
Rilevato il comportamento anomalo della Lodigiani.
Nuove indagini sul trio Accardo - Russo - Cascio
Le indagini per l'omicidio del colonnello Giuseppe Russo, dopo il fallimento degli interrogatori dei tecnici e dei titolari dell'impresa Lodigiani, su posizione di cautela, e dopo le proteste di innocenza di Biagio Lamberti, di Borgetto, e del geometra Giuseppe Modesto, presidente della "Inco" (che rimarranno entrambi, ancora per qualche settimana all'Ucciardone), sono giunte alla seconda fase.
Il giudice istruttore Pietro Sirena e il sostituto procuratore Giuseppe Pignatone hanno dato incarico a carabinieri, polizia e guardia di finanza, di approfondire i rapporti intercorsi tra personaggi che, per aspetti diversi, ruotano attorno all'impresa Lodigiani, che ha in appalto i lavori di costruzione della super-diga di Garcia, e i contrasti per l'aggiudicazione di remunerativi subappalti. Saranno cioè sottoposti a più rigidi controlli i motivi che indussero la Lodigiani ad estromettere dalle forniture per la diga Garcia l'imprenditore di Montevago Rosario Cascio, sostituito dall'impresa di Camporeale "Inco", presieduta dal geometra Giuseppe Modesto.
Le nuove indagini investono personaggi di rilievo, in questa vicenda: Stefano Accardo, di Partanna-Trapani, che costituirebbe l'anello di congiunzione tra il colonnello Russo e il costruttore Rosario Cascio, lo stesso Cascio ed altri personaggi che, con il giallo di Ficuzza, potrebbero avere, direttamente o indirettamente, agganci.
La riesumazione di un personaggio come Stefano Accardo, il cui fratello Francesco è socio dell'impresa "Imac", presieduta da Rosario Cascio, ripropone - per le indagini Russo - un ulteriore approfondimento di certi aspetti del sequestro del "re delle esattorie" di Salemi, l'anziano Luigi Corleo, rapito e mai più restituito alla sua famiglia.
Accardo e Russo si conoscevano e, proprio durante gli sviluppi delle indagini per il caso Corleo si sarebbero frequentati. Per quale motivo?, si è chiesto il giudice Sirena. Di certo c'è che Russo si occupò intensamente di questo clamoroso sequestro e del successivo, quello del prof. Nicola Campisi. In entrambi i casi, le indagini sfociarono in una serie di denunce che, recentemente, sia da parte del giudice istruttore di Marsala (caso Corleo) che di Palermo (caso Campisi), si sono tradotte in diversi rinvii a giudizio.
Dai sequestri si passò alla Lodigiani la quale, prima di rivedere i suoi programmi di subappalti e forniture a Garcia, subì, in quattro cantieri dislocati nel meridione e, infine, nella sede centrale di Milano, ben quattro attentati dinamitardi. La "mente" degli attentatori risiederebbe nel palermitano. Come se la "anonima sequestri" siciliana, ad un certo momento, attraverso una serie di gravi attentati, avesse dirottato il suo interesse verso i remunerativi appalti della Valle del Belice e di Garcia.
Il colonnello Russo che, per la sua fitta rete di conoscenti e informatori, aveva localizzato le centrali della "anonima sequestri" ed era stato informato di una famosa riunione di mafia, nel corso della quale la "onorata società" aveva deciso di smetterla con i sequestri per dedicarsi ad appalti e subappalti, costituiva la spina al fianco di una "anonima impresari" che intendeva scalzare da subappalti e forniture gli imprenditori cui la Lodigiani si era rivolta all'inizio dei suoi lavori a Garcia.
Se poi si tiene conto che il colonnello Russo era in rapporti di amicizia con uno dei più grossi impresari (Cascio) che la "anonima impresari" aveva scalzato da Garcia, si comprende subito il perché della decisione del tribunale mafioso di decretare la soppressione dell'alto ufficiale. Chiedendo giustizia per Rosario Cascio o per Rosario Napoli (la vittima della cava Mannarazza), automaticamente Russo metteva in crisi i piani di una organizzazione già nota, per altre indagini, all'ufficiale, e quindi doppiamente in pericolo: per le attività criminose del passato (sequestri) e per le nuove programmate, per assicurarsi il predominio negli appalti, forniture e subappalti.
Comunque, il giudice Sirena ha disposto, magari sperando in un colpo di fortuna, lo sviluppo dei guanti di paraffina prelevati a numerose persone subito dopo l'uccisione del colonnello Russo. Ha disposto anche la traduzione di una serie di bobine contenenti conversazioni telefoniche intercettate da carabinieri e polizia durante la prima fase delle indagini sul duplice omicidio di Ficuzza e ha iniziato l'esame del materiale sequestrato durante le prime perquisizioni domiciliari disposte. Nei prossimi giorni il magistrato istruttore interrogherà l'ing. Tiberio Bracaletti che, insieme all'ing. Edoardo Ratti, sostituì l'ing. Ero Bolzoni nella direzione dei lavori per la costruzione della diga Garcia. Ma è difficile che da questo interrogatorio il giudice Sirena possa ricavare lumi per la sua indagine.
E' stato ormai assodato che l'impresa Lodigiani con l'imprenditore Rosario Cascio si è comportata in modo anomalo. Una grossa impresa, di valore internazionale, non revoca un subappalto o una fornitura ad una persona che riscuoteva la sua fiducia e che era in grado di potere far fronte agli impegni contratti, solo perché un'altra impresa, meno qualificata, come la INCO, offre materiale a prezzi leggermente inferiori.
I carabinieri hanno indicato come causa del comportamento anomalo della Lodigiani i quattro attentati subiti in vari cantieri dell'impresa. E caso strano, come accennato, la base degli attentati di Milano e nei tre cantieri del meridione della Lodigiani è stata localizzata nel palermitano. I carabinieri hanno pure assodato che, nel retroterra, si era costituita una "triplice" mafiosa (Roccamena-Borgetto-Corleone) fermamente decisa a "ricacciare" al di là dei confini del palermitano imprese "straniere" impegnate a Garcia. E Cascio, per la mafia palermitana, era veramente uno straniero.
La stessa arma per un altro delitto
Sul “Giornale di Sicilia” dell’8 febbraio 1978 apparve il seguente articolo di Mario Francese, che riconduceva alla potente cosca mafiosa dominante nella zona di Corleone, Partinico e Borgetto, e capace di controllare diversi settori economici, sia l’omicidio del colonnello Russo, sia quello di Giovanni Palazzo (assassinato a Corleone il 24 luglio 1977), uccisi con la medesima arma:
Nuovo rapporto dei carabinieri sulla duplice esecuzione di Ficuzza. Un killer di mafia l'omicida di Russo. Gli investigatori sono convinti che l'arma usata per uccidere il loro ufficiale è la stessa che sparò a Giovanni Palazzo
Una lunga serie di abigeati e di vendette che le indagini tentano di collegare
Un "vertice" a Corleone decise gli omicidi
Una decina di persone fermate, una delle quali in nottata è finita all'Ucciardone, un'altra ventina di testi convocati e una serie di fascicoli "neri" intestati a persone al di fuori di ogni sospetto, costituiscono il primo bilancio (peraltro ancora incompleto) di una nuova fase di indagini dei carabinieri per una catena di omicidi avvenuti a Corleone e a Mezzojuso. Tra questi anche l'assassinio del colonnello Russo, colpito a Ficuzza il 20 agosto scorso insieme all'insegnante Filippo Costa. Il fermato, trasferito in nottata all'Ucciardone, è Francesco Mancuso, 59 anni, nato a Prizzi ma da anni residente a Corleone, agricoltore.
I delitti che i carabinieri del nucleo investigativo (diretti dal maggiore Subranni, collaborato dalla compagnia dei carabinieri di Corleone e dal comandante capitano Romeo, dal commissario capo di Corleone dottor Chiavetti, da ufficiali e sottufficiali dell'Arma del triangolo Corleone-Partinico-Borgetto) hanno valutato, sono quelli di Onofrio Palazzo (scomparso dal 9 luglio scorso), di Giovanni Palazzo (assassinato a Corleone la sera del 24 luglio), di Salvatore La Gattuta (ucciso a Mezzojuso la sera del 10 agosto) e di Marco Puccio, cognato dello scomparso Onofrio Palazzo (fatto fuori il 10 gennaio scorso). E tra questi omicidi, anche se la motivazione, ovviamente, è diversa, i carabinieri hanno inserito la duplice esecuzione di Ficuzza.
Si ha la sensazione che l'Arma sia riuscita ad accertare (in proposito si fa riferimento ad un importante consesso di mafiosi svoltosi in una località del corleonese) che il triangolo Corleone-Borgetto-Partinico è controllato da una grossa "famiglia" mafiosa che controlla vari settori economici. Questa mafia, con una sua gerarchia piramidale, con "capi-famiglia di rispetto" in ogni comune del triangolo. Tutti i delitti ricordati sopra sarebbero stati decisi da questa famiglia.
I due Palazzo, Marco Puccio di Corleone e La Gattuta di Mezzojuso sarebbero caduti sulla strada dell'abigeato. Sintomatico, in questo senso, l'interrogatorio reso ieri mattina, come teste, dal commissario straordinario dell'istituto zootecnico di Boccadifalco, Nicola Insinga, che è anche segretario del segretario regionale della DC on. Rosario Nicoletti.
Accompagnato da un legale di fiducia, il prof. Giovanni Natoli ad Insinga sarebbero stati richiesti dal maggiore Subranni particolari su un grosso abigeato che, evidentemente, gli investigatori collegherebbero con la soppressione di Salvatore La Gattuta. Non è neanche stato reso noto il nome del cugino di Insinga. Si sa soltanto che, dopo aver subito l'abigeato la "vittima" avrebbe preferito cambiare aria emigrando "per motivi di lavoro" in Germania.
Dunque l'abigeato sarebbe il filo conduttore di almeno quattro omicidi (i due Palazzo, Puccio e La Gattuta) e forse anche di un quinto delitto, quello di Vincenzo Nizza, "compare" di Onofrio Palazzo ed allevatore pure lui, assassinato a Marsala, contrada Amabilina, nel gennaio scorso. E per frenare (oggi la polizia può ben poco in seguito all'abolizione dell'anagrafe bestiame) questa corsa all'abigeato, a tutela degli interessi degli allevatori, la mafia, quella con la "M" avrebbe messo a disposizione killer e calibro 38. Una mafia spietata, che non uccide soltanto per gli abigeati, ma che sistematicamente elimina (vedi omicidio di Giuseppe Artale, a Roccamena o attentato a Rosario Napoli) tutte le persone che stanno su una sponda opposta o che non sanno tenere la bocca chiusa. Quindi, una mafia che avrebbe anche decretato e fatto eseguire le due uccisioni di Ficuzza.
A questa ricostruzione di fatti, che hanno bisogno di prove (prove processualmente utilizzabili) gli inquirenti non sarebbero giunti per caso. Sarebbe stata la dinamica di alcuni delitti che avrebbe tradito, in maniera emblematica, la stessa matrice, gli stessi killer e persino le stesse armi. Si ritiene, ad esempio, che uno dei killer che uccise spettacolarmente in piazza Garibaldi Giovanni Palazzo, la sera del 24 luglio, uccise anche, spalleggiato da altri e con la stessa calibro 38, a Ficuzza, il colonnello Russo e l'insegnante Costa.
Proprio la comparazione delle armi, la metodologia dei killer e altri particolari, non ancora resi noti, avrebbero convalidato quella che prima era soltanto una ipotesi: nel triangolo Corleone-Borgetto-Partinico c'è una mafia che comanda e che ha i suoi fedeli ed infallibili killer. Gente prezzolata che vivrebbe con i proventi delle loro esecuzioni e che, vengono impiegati in numero diverso: a Ficuzza furono quattro, a Corleone, per Giovanni Palazzo, furono in due. Identiche anche le modalità dell'agguato a Giovanni Palazzo e a La Gattuta: identiche le modalità dei rapimenti di Onofrio Palazzo e di suo cognato Marco Puccio.
La sentenza in questione è quella della Corte di Assise di Palermo, presidente Leonardo Guarnotta, contro Salvatore Riina +9.
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