Aveva chiuso nel 2019, a fine aprile potrà riaprire. È un luogo in cui si è fatta la storia, anche quella più controversa. Dagli incontri di mafia a quel barone costretto all’esilio in una stanza dell’albergo
- Il Grand Hotel et des Palmes, meglio conosciuto come “Le Palme”, è un monumento della Palermo felicissima e della Palermo degli intrighi.
Rivenduto qualche anno fa al fondo Algebris del finanziere Davide Serra che ne ha affidato la ristrutturazione e la gestione alla Mare Resort srl degli imprenditori palermitani Corvaia.
Uno dei Corvaia, Giuseppe, qualche settimana fa è stato nominato delegato per Alberghi e Turismo di Sicindustria, associazione ancora ben salda nelle mani degli amici del misteriosissimo Calogero Antonio Montante.
Ogni camera nasconde i suoi misteri e i suoi piaceri. Nella suite numero “124”, Richard Wagner ha composto l’ultimo atto del Parsifal, alla “224” viene trovato morto lo scrittore Raymond Roussel, gli agenti della Cia in missione in Sicilia volevano sempre la “129”, la numero “103” era riservata esclusivamente a Giulio Andreotti mentre scriveva le memorie difensive quando era sotto processo a Palermo. Fra i suoi stucchi e i suoi specchi si sono fatti e disfatti i governi della Regione, si sono tenuti i summit di Cosa Nostra con i grandi capi chiamati dall’America, sui velluti dei suoi divani si sono seduti presidenti del Consiglio come Francesco Crispi e Vittorio Emanuele Orlando. E, dopo la seconda guerra, anche le signorine da «ventimila a notte», Lucky Luciano con la giovanissima amante Virginia Massa, il colonnello Charles Poletti che trasferisce lì il quartiere generale dell’Amgot, l’amministrazione militare alleata dei territori occupati. Dietro le trasparenze delle vetrate liberty, c’è poi il bar con Toti Librizzi che ha servito cocktail a Vittorio Gassmann e a Burt Lancaster, a Ray Charles e a Maria Callas, Totò, Al Pacino, Carla Fracci Luchino Visconti, Fred Buscaglione e le gemelle Kessler.
Alle Palme
Il Grand Hotel et des Palmes, meglio conosciuto come “Le Palme”, è un monumento della Palermo felicissima e della Palermo degli intrighi, fascinoso e un po’ délabré albergo al centro della città di fronte a una chiesa anglicana alla quale è collegata con un passaggio sotterraneo e con di fronte, almeno una volta, il domicilio ufficiale dei servizi segreti civili. Incrocio strategico della Sicilia, palcoscenico di storie pittoresche o torbide, chiuso dal 2019 riaprirà a fine aprile. Sarà un cinque stelle lusso. Di proprietà per decenni del Banco di Sicilia, acquistato dall’Acqua marcia di Caltagirone e rivenduto qualche anno fa al fondo Algebris del finanziere Davide Serra che ne ha affidato la ristrutturazione e la gestione alla Mare Resort srl degli imprenditori palermitani Corvaia.
Uno dei Corvaia, Giuseppe, qualche settimana fa è stato nominato delegato per Alberghi e Turismo di Sicindustria, associazione ancora ben salda nelle mani degli amici del misteriosissimo Calogero Antonio Montante. Incrociamo le dita e comunque raccontiamoli i fasti delle "Palme”, costruito nel 1847 come residenza della famiglia Ingham, quegli inglesi che due secoli fa scendono in Sicilia per produrre ed esportare un vino liquoroso, il Marsala, che somiglia al Madeira e al Porto che piace tanto a Londra. Gli Ingham – che sono imparentati con i Whitaker, altri mercanti come i Woodhose e gli Hopps – inaugurano l’albergo il primo ottobre del 1877 e, trent’anni dopo, cedono la loro dimora al cavaliere Enrico Ragusa che incarica il famoso architetto Ernesto Basile di progettare un hotel sfarzoso in armonia con il clima della Belle Epoque. Da quel momento “Le Palme” diventa crocevia di trame politiche, ribalta per le star dello spettacolo, location di grandi film. Negli «anni ruggenti» di Palermo lì dentro ci passano quelli che contano e quelli che vogliono contare. È ritrovo degli onorevoli di Palazzo dei Normanni, il parlamento siciliano, che consumano i loro tradimenti come avviene la sera del 15 febbraio 1960.
È la data ufficiale della fine del “milazzismo” in Sicilia, un governo guidato da Silvio Milazzo che viene eletto presidente della Regione con i voti dei partiti di destra e di sinistra, il Partito comunista e il Movimento sociale per la prima volta «alleati in nome dei superiori interessi siciliani». Dopo due anni il governo Milazzo entra in crisi, ha bisogno dei voti di alcuni deputati. È in una stanza dell’albergo che finisce in uno scandalo il governo dello scandalo. L’onorevole Ludovico Corrao e l’onorevole Enzo Marrano cercano di convincere tre colleghi a saltare il fosso per rafforzare la maggioranza e uno di loro, Carmelo Santalco, dà la sua disponibilità a farsi corrompere con 100 milioni di vecchie lire. Ma sta facendo il doppio gioco, sotto il letto ha un microfono che registra il commercio. Il giorno dopo, in assemblea, Santalco denuncia pubblicamente la trattativa che prenderà il nome di «beffa delle Palme».
Storie di mafia
Appena tre anni prima, dal 10 al 14 ottobre 1957, al Grand Hotel la mafia siciliana e la mafia americana firmano un patto che dopo due decenni trasformerà Palermo nella capitale mondiale dell’eroina. Intorno a un grande tavolo rotondo ci sono tutti. Dagli Stati Uniti arrivano Frank Garofalo, Giuseppe Joe Bonanno, Vito Vitale, Santo Sorge, Charles Orlando, Nicola Nick Gentile e Carmine Galante detto Lillo the Cigar per un havana che stringe sempre fra i denti. Si baciano e si abbracciano con Vincenzo Rimi da Alcamo, Cesare Manzella da Terrasini, Giuseppe Genco Russo da Mussomeli. Per i palermitani ci sono don Mimì La Fata, Calcedonio Di Pisa, Rosario Mancino.
Una dettagliata ricostruzione di quello che è "il summit delle Palme” si ritrova nel libro Mafia e politica scritto da Michele Pantaleone per Einaudi nel 1972 e in alcune scoppiettanti cronache del giornale L’Ora. Chi c’è con tutti quei “mammasantissima” nella Sala del Caminetto, seduto in un angolo? Un giovanissimo avvocato di Patti, provincia di Messina, che allora non è ancora famoso: Michele Sindona, il banchiere amico della mafia e che in futuro Giulio Andreotti definirà «il salvatore della lira». E, naturalmente, a tenere banco al summit Salvatore Lucania alias Lucky Luciano, appena espulso come “indesiderato” dagli Stati Uniti dopo avere reso servigi al governo di Washington. Con il controllo del “sindacato” aveva ripulito il porto di New York dagli U-Boot nazisti.
Al bancone del bar
Ma non ci sono solo vicende mafiose che s’intrecciano fra quelle pareti color panna e i marmi e le scalinate. Per tre mesi, dal 5 novembre 1881 al primo febbraio del 1882, vi alloggia Wagner con la seconda moglie Cosima Listz e, si racconta, che se ne sia andato senza saldare il conto. Pessimi i suoi rapporti con proprietario, il cavaliere Ragusa. Nel frattempo riesce a concludere la partitura del suo Parsifal. Un vero giallo ancora oggi è il ritrovamento, nella notte fra il 13 e il 14 luglio 1933, del cadavere dello scrittore surrealista Raymond Roussel. Overdose di barbiturici, è il frettoloso verdetto del medico legale. Una verità che non accontenta Leonardo Sciascia. Nel 1971 scriverà per la Sellerio Atti relativi alla morte di Raymond Roussel, un racconto-inchiesta dove tenta di smontare l’ipotesi del suicidio.
Di tutte le leggende delle “Palme” ce n’è una però che supera ogni immaginazione ed è ambientata nella suite “204”, dove un nobile siciliano è costretto a vivere sino alla fine dei suoi giorni per volere di invisibili giudici. È il barone Giuseppe Di Stefano, “condannato” da un Tribunale di mafia a passare la sua esistenza dentro il Grand Hotel et de Palmes. Si narra che il barone, originario di Castelvetrano, lo stesso paese di Matteo Messina Denaro, un giorno abbia fatto qualcosa che non doveva fare. Qualcuno dice che ha osato allungare troppo lo sguardo sulla donna di un boss, qualcuno dice invece che ha ucciso un ragazzo – non si sa se accidentalmente o meno – di un’importante famiglia di Cosa Nostra. Certo è che è stata chiesta «soddisfazione»: punire il barone.
Dopo una lunga trattativa lo speciale Tribunale emette la sentenza: il barone Di Stefano può restare in vita ma non potrà mai uscire dall’Hotel delle Palme. E così è stato sino alla Pasqua del 1998 quando, a 92 anni, il nobile se ne va nel sonno. Uno dei pochi amici che gli restano nei suoi ultimi giorni è Toti Librizzi, il capo barman, quattromila piccoli tesori raccolti dagli ospiti più illustri dell’hotel e gelosamente custoditi nella sua casa. Autografi, schizzi, lettere. Anche un disegno di Ray Charles, cieco, che su un foglio traccia il profilo della sua mano. E tanti ricordi. Testimone delle lunghe conversazioni al bar fra Renato Guttuso e Leonardo Sciascia, quando i due sono ancora in intimità prima della rottura dopo un colloquio fra loro e il segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer ai tempi della "Commisisone Moro”. Sciascia rivela che Berlinguer gli accenna a un coinvolgimento della Cecoslovacchia nelle operazioni delle Brigate Rosse, Renato Guttuso che è presente smentisce, l’amicizia finisce. Ma, a Palermo, prima si vedevano sempre in quel bar delle “Palme”, con la discreta presenza di Toti. Il pittore beveva sempre whisky, «quattro parti di Johnnie Walker allungato con acqua», il secondo solo spremute.
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