Oggi a Roma la grande manifestazione del mondo della scuola e delle famiglie per denunciare problemi che non dipendono (soltanto) dal Covid
- A Palermo quest’anno ci sono 2.500 cattedre “vacanti” per docenti di sostegno, cioè cattedre che non hanno un docente titolare, le nomine di ruolo son state 16.
- Ogni anno centinaia di migliaia di cattedre vacanti che vengono coperte da docenti nominati a ridosso dell’inizio dell’anno scolastico, per supplire appunto un docente che non c’è.
- Serve un mecanismo di selezione degli insegnanti simile a quello delle specializzazioni mediche per bandire un numero di posti connesso alle necessità didattiche di un territorio con un concorso su scala nazionale.
Alla fine le scuole le abbiamo aperte. Parrebbe sceso il silenzio sui tanti problemi che le scuole si sono trovate ad affrontare, su tutti quello della mancata nomina dei supplenti nelle cattedre “vacanti di docente di ruolo”. La manifestazione di oggi a Roma vuole ribadire che i molti problemi stanno tutti lì. Sentirsi ripetere che “ogni anno le scuole iniziano con gli organici ridotti” non accontenta nessuno, anzi, se possibile, fa arrabbiare ancor di più le famiglie di fronte a una classe dirigente che ammette i suoi limiti.
A Palermo quest’anno ci sono 2.500 cattedre “vacanti” per docenti di sostegno, cioè cattedre che non hanno un docente titolare, le nomine di ruolo son state 16. E così accade in tante materie e in tante scuole in tutta Italia. Non solo a Milano, con buona pace del sindaco Beppe Sala.
Gli studenti soffrono due volte
Quello che molti non sanno è che ci sono centinaia di migliaia di cattedre vacanti che vengono coperte da docenti nominati a ridosso dell’inizio dell’anno scolastico, per supplire appunto un docente che non c’è, non perché malato o assente per un motivo, ma perché trattasi di cattedre vuote, vacanti, il cui supplente non arriva quasi mai in tempo per l’inizio delle lezioni.
Gli studenti sono doppiamente penalizzati: per avere ogni anno docenti diversi e per il ritardo con l’insegnante entra in classe.
La domanda che facciamo, al governo e alla ministra dell’Istruzione Lucia Azzollina, è: perché non in quelle classi non ci sono i docenti stabili, cioè di ruolo?
Non entriamo nella misteriosa distinzione tra posti di diritto e posti di fatto per non far svenire chi legge, ma auguriamo una risposta diversa da: “quelli prima di noi non hanno mica fatto meglio”.
Vero è che accade ogni anno, ma vero è anche che quest’anno è stato persino peggio e sarebbe pur l’ora di risolvere il problema con una riforma strutturale (vedi alla voce Recovery Fund)
La seconda domanda riguarda infatti tutto il sistema di reclutamento dei docenti, il meccanismo perverso delle graduatorie zeppe di precari, ma vuote per alcune discipline e in alcuni territori, e anche la qualità della formazione specifica con cui si arriva in cattedra.
Possiamo sperare che si riapra il faldone della formazione iniziale e selezione dei docenti che affronti in una sia il tema della preparazione disciplinare e in tutte le conoscenze e competenze necessarie ad essere docente, e sia in grado al contempo di eliminare i problemi che stiamo vivendo in questi giorni?
La soluzione dimenticata
Il governo Gentiloni aveva approvato una riforma in tal senso (decreto legislativo n. 59 del 2017). Prontamente eliminata dal ministro Bussetti prima ancora che decollasse. Quel sistema riprendeva un progetto del governo Prodi il cui obiettivo ambizioso era quello di collegare formazione e selezione dei docenti e rimuovere la separazione tra università che forma (lauree e abilitazioni) e scuola che seleziona (concorsi e precariato).
Il nuovo schema prevedeva ogni due anni un concorso nazionale, bandito su fabbisogni regionali per laureati magistrali, i cui vincitori – e solo loro - venivano ammessi ad un percorso triennale retribuito (non quanto aveva proposto chi scrive ma comunque retribuito, e questo fu uno dei motivi della tiepida accoglienza tra neo laureati e sindacati) di formazione e tirocinio, gestito in collaborazione tra scuola e università.
Un meccanismo simile a quello delle specializzazioni mediche, nel quale si bandivano un numero di posti strettamente connesso alle necessità didattiche di un territorio, attraverso un concorso su scala nazionale. Il docente sarebbe arrivato al ruolo non per diritto acquisito di anni di precariato, di concorsi ballerini, di formule strane di titoli e altro, bensì per fabbisogno e selezione di merito più chiara e rigorosa .
Al termine del percorso si sarebbe stati immessi in ruolo, in modo e luogo certi, formati, valutati e con una solida formazione sul campo guidata da tutor ed esperti.
Non più graduatorie ad accumulo di punti, non più convocazioni folli e assegnazioni impazzite come quelle di questi giorni, non più studenti mandati a casa per assenza di docente nominato, non più corsi abilitanti vari, concorsi elefantiaci a scadenze imprevedibili, in cui si discute del sesso degli angeli se fare con test a crocette, con temi, con salti all’indietro o con foglio bianco (non stiamo facendo ironia: è il sunto della discussione avvenuta a giugno e che è stata solo rimandata su come svolgere i concorsi prossimi venturi).
Al posto di tutto questo avremmo avuto un sistema regolare nel tempo in cui neo laureati aspiranti docenti, superato un concorso, avrebbero intrapreso tre anni di approfondimento culturale e professionale e di tirocinio “in corsia”, senza dover spendere fortune, anzi essendo retribuiti, e senza perdere freschezza e motivazione in precariati sfiancanti.
Entrati nel percorso avevano la certezza del posto, previa valutazione individuale positiva del percorso formativo svolto. Non solo: se incapaci, se non predisposti, sarebbero stati valutati sul campo, in osservazione, e fermati, perché le competenze didattiche non possono valutarsi in un concorso, in assenza di studenti è come valutare un nuotatore in una piscina senza acqua.
Questo modello aveva molti oppositori. I neo laureati: un conto è laurearsi, mettersi a disposizione per le supplenze e buttarsi subito in piscina, tanto si impara così a nuotare “e che c’è vò”, dicono a Roma. Un altro conto è intraprendere un percorso specialistico post lauream. Tre anni erano troppi?
Posto che al terzo anno il tirocinante sarebbe stato a tutti gli effetti un supplente annuale con stipendio pieno sulla “propria” futura cattedra, allora il percorso andava accorciato, non eliminato. I sindacati: crediamo molto nel valore di intermediazione sindacale, ma il sindacato non può continuare a difendere il modello attuale, ingestibile e, con tutti i guai che genera; così non fa l’interesse né dei suoi iscritti e delle sue iscritte (alle quali ci onoriamo di appartenere) né del Paese.
Il costo politico
Il modello attuale non fa gli interessi di vuol diventare insegnante: non assicurando adeguati attrezzi professionali si manda il precario nella tana dei leoni a mani nude.
Sediamoci intorno a un tavolo per trovare una soluzione che garantisca un sistema migliore, sia per la scuola che per i lavoratori che la abitano, conservando comunque funzioni alla trattativa sindacale, ma non giochiamo con eterne eterogenesi dei fini, il sistema migliore deve assicurare per primi gli studenti e oggi così non è.
I governi: a chi fa veramente comodo trasformare un esercito di impiegati pagati poco, vessati a casaccio, con finti privilegi che socialmente gli provocano odio e disprezzo via via crescenti, in un professionista, formato bene, selezionato bene a cui subito dopo dovrai assicurare un contratto degno di questo nome, dove nero su bianco si fughino sia le furbizie sua le leggende metropolitane, a partire da quella dei tre mesi di vacanze? A nessun governo fa comodo, lo sappiamo, ma farebbe molto comodo al paese.
Di tutto questo si parla poco, perché è materia complicata oltre che complessa, anche se giornalmente siamo sommersi da un ipertrofico e ahinoi superficiale, discorso sulla Scuola (da ogni punto di vista lo si voglia affrontare: sistemico, didattico, organizzativo), in assenza di un discorso con la scuola, come ama ripetere il pedagogista Cristiano Corsini. Noi proponiamo di riaprire quel faldone, di migliorare quanto era migliorabile di quel modello, su tutti il riconoscimento economico del docente specializzando, ma di non rimanere impantanati in un caos che ci riporta sempre indietro e ogni anno più a fondo.
Noi ci auspichiamo che questo sia uno delle richieste più urgenti che venga fuori dalle mobilitazioni sulla Scuola di questi giorni.
Manuela Ghizzoni è stata parlamentare del Partito democratico fino al 2018. Mila Spicola è insegnante, pedagogista, ha ricoperto incarichi nel Pd ed è stata consulente del ministero dell’Istruzione
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