- «Omissiva, scellerata, irragionevole». Sono gli aggettivi che il magistrato Enrico Zucca, sostituto procuratore generale a Genova, utilizza per definire la riforma Cartabia.
- Il Comitato dei ministri del consiglio d’europa ha specificato che la legge sulla tortura approvata dall’Italia, che prevede 18 anni come termine di prescrizione, era insufficiente perché il reato deve essere imprescrittibile.
- Non possiamo per questo credere alle promesse fatte nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
La ministra ha fatto esattamente il contrario e Zucca, pubblico ministero nei processi per le violenze al G8 di Genova, parla di promesse tradite.
Come giudica la riforma della giustizia Cartabia?
Un sistema processuale penale è fatto di delicati equilibri e va visto perciò nel complesso su come bilancia tutela dei diritti e efficacia. Il nostro è un sistema piuttosto complicato che si articola quasi immancabilmente su tre gradi di giudizio per la stragrande maggioranza dei reati.
La giustizia negoziata è in percentuali irrisorie, di fronte a una media che oscilla tra il 60 e il 90 per cento degli altri sistemi a noi vicini. Chiaro che ci mettiamo più tempo ad arrivare a una decisione finale. Ogni paragone quindi è fuorviante. Invece che chiedersi come mai questa differenza e nella incapacità evidente di una analisi condivisa si è preferita la soluzione del nodo gordiano, cioè un rimedio brutale che appunto ha tagliato corto.
Mi riferisco ovviamente a quello che sembra essere il cuore della riforma, cioè la prescrizione processuale.
Un tempo prestabilito di durata in appello e in cassazione non è utile per garantire la ragionevole durata dei processi?
Ci insegna la Corte europea dei diritti umani, che è quella che spesso ci ha condannato per la durata irragionevole del processo, che la ragionevolezza del tempo impiegato è legata al caso concreto e a una valutazione degli interessi in gioco.
Questa valutazione è stata espressa chiaramente proprio nel caso Cestaro sui fatti della Diaz quando la Corte, di fronte a un processo durato undici anni, ha riconosciuto che nel rispetto delle garanzie dell’equo processo quel caso ha dovuto richiedere un tempo obiettivamente lungo. A proposito, quel caso non sarebbe rientrato nelle eccezioni proposte dalla riforma (sarebbe stato cancellato, ndr). Questo vuol dire che un termine astratto non è la soluzione più ragionevole.
L’approccio della valutazione del caso concreto del resto è quella adottata nei pochi ordinamenti che hanno qualcosa di simile.
L’ultima versione della riforma prevede l’esclusione dei reati di mafia, è un passo avanti?
Sono aggiustamenti, ma la riforma resta uno strumento irragionevole. Ogni partito aveva il suo catalogo, non è questo il problema. È la conseguenza che urta contro principi essenziali, primo fra tutti quello della uguaglianza, che come ben sa la ministra costituzionalista richiede di non trattare casi diversi con lo stesso rimedio. Che i casi diversi siano solo quelli del nuovo catalogo di reati esclusi dalla tagliola o dal suo operare immediato è altamente opinabile.
Non parliamo del possibile contrasto con la obbligatorietà dell’azione penale, altra declinazione del principio di eguaglianza. Un reato non prescritto il cui accertamento è a un certo punto abbandonato. Qui si va anche contro il fine del processo nella nostra tradizione storico culturale, cioè quello dell’accertamento dei fatti. L’Europa ci chiedeva di accelerare l’accertamento, non di mettere in moto una macchina, far lavorare giudici, sprecare risorse e buttare tutto al macero.
Del resto la commissione ministeriale non aveva prospettato solo lo strumento bizzarro prescelto. Ma qui non è stata seguita.
Perché?
Incomprensibile questa scelta. In Germania quando si introducono le riforme si sperimentano in un tribunale. Da noi non riusciamo neanche a monitorare sul campo le riforme introdotte. Né la riforma Orlando, né quella Bonafede avevano ancora prodotto i loro effetti eppure le abbiamo cambiate prima di misurarne l’efficacia. Questa pare un’operazione simbolica. Bisognava solo dare un segnale in attesa della vera riforma.
Quale?
Quella che porterà al governo dell’azione penale, quindi alla separazione delle carriere che porterà il pubblico ministero sotto l’orbita del potere esecutivo o comunque della politica. Questa riforma rappresenta il primo passo per neutralizzare l’indipendenza della magistratura. È chiaro che la lentezza del sistema è attribuita ai giudici. Ma non c’è uno straccio di prova per sostenere questo. Basta comparare gli organici dei giudici europei.
Perché Cartabia si intesta questa riforma?
Dobbiamo prendere atto che tutti i ministri della giustizia che abbiamo conosciuto si sono bruciati. Anche illustri giuristi. Quello è un ministero politico. In Italia è prevalente una narrazione che vede uno strapotere giudiziario ed è insofferente al controllo di legalità che genera talora forte tensione tra potere giudiziario ed esecutivo.
Dovremo preoccuparci di più qualora ci fosse armonia perfetta, almeno così è da questa parte del mondo occidentale. Il sistema penale non può essere aggiustato avendo di mira i pochi casi sensibili, ma il corpo di un sistema ingolfato, come tutti i sistemi penali oggi, anche nei paesi ad azione discrezionale. I sistemi funzionano bene e sono rapidi per le categorie di utenti che si ritengono “ordinarie”. Non si prescrivono i furtarelli, ma i reati dei colletti bianchi. Le galere sono piene di umanità dolente. Le diseguaglianze della società sono moltiplicate in modo esponenziale nei sistemi penali. Diciamo le cose come stanno: la prescrizione o la durata ragionevole spesso si trasformano in privilegi di categoria sociale.
Tra i reati che godranno di possibili proroghe non c’è quello di tortura. Un altro buco di questa riforma?
Un buco? Una deliberata omissione che faccio fatica ad accostare a persone candidate ad essere la massima magistratura del paese.
La tortura come disegnata dalle convenzioni internazionali ha uno statuto specifico che la distingue da ogni altro reato. Si tratta di proteggere con quel reato diritti fondamentali incomprimibili, possiamo dire whatever it takes. Per questo è considerata imprescrittibile.
Imprescrittibile?
Il comitato dei ministri del Consiglio d’europa, organo che presiede alla esecuzione delle sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha ancora sotto stretta supervisione l’esecuzione della sentenza Cestaro del 2015 per i fatti della Diaz e di quelle successive del 2017 per i fatti di Bolzaneto. Nelle sentenze la corte, avendo rivelato difetti strutturali, ci ha dato diverse indicazioni.
Tra le indicazioni c’è quella che la tortura e i trattamenti inumani e degradanti devono essere imprescrittibili, ma non solo. Periodicamente il comitato ci ha chiesto aggiornamenti per valutare i rimedi adottati. Nell’ultima riunione, nel dicembre 2019, ha specificato che la legge sulla tortura approvata dall’Italia, che prevede 18 anni come termine di prescrizione, era insufficiente perché il reato deve essere imprescrittibile e aveva salutato favorevolmente la prospettata riforma Bonafede. Del resto la nostra storia dimostra che ci sono diversi casi nei quali la tortura è stata scoperta oltre quel termine. Il governo era chiamato a rispondere su questo punto e anche sui codici identificativi.
Il governo non ha risposto nonostante ci fosse un termine: il 30 giugno 2020. La risposta era dovuta non all’Europa della moneta ma a quella della civiltà e dei valori. Ora dovrà dire che si è pensato ad altro, ma non alla tortura. La riforma Cartabia parte con questo atto di scellerata noncuranza.
Non possiamo per questo credere alle promesse fatte nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Neppure al conformismo delle tardive indignazioni per il ventennale del G8 genovese, evidentemente anche queste un lip service.
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