La cerimonia italo-slovena per le vittime delle foibe è un passo simbolico importante, ma dietro alle immagini c'è il paziente lavoro degli storici per superare le divisioni fra "noi" e "loro”
- Lunedì a Basovizza, vicino a Trieste, i presidenti della repubblica italiana e slovena si sono incontrati per una solenne cerimonia di fronte ai monumenti che celebrano i morti delle foibe e gli sloveni fucilati dai fascisti. La fotografia della commemorazione è divenuta il simbolo di una riconciliazione attesa da lungo tempo
- Ma sotto la superficie corrono ancora profonde tensioni. La cerimonia si è svolta tra imponenti misure di sicurezza e nel timore di contestazioni. I gesti solenni e conciliatori, anche se utili, non sono sufficienti a cancellare una memoria radicata da generazioni: per farlo è necessario il lavoro degli storici
- Le divisioni non erano solo etniche, ma anche politiche, sociali ed economiche. Una lezione importante da ricordare anche nel presente, quando sempre più spesso la politica è presentata come una scelta tra “noi” e “loro”
La cerimonia celebrata dai presidenti di Italia e Slovenia di fronte ai monumenti che circondano la foiba di Basovizza, poco lontano da Trieste, sembra la conclusione ideale di una storia tragica e ancora oggi dolorosamente ricordata. È la storia del nostro confine orientale, dove italiani, sloveni e croati si perseguitarono e uccisero per tutta la prima metà del secolo scorso, infliggendosi ferite che sono sentite ancora oggi.
Le fotografie scattate ai due presidenti sono immagini molto potenti. Sergio Mattarella e Borut Pahor sono ripresi di spalle, due sagome grigie e solenni di fronte a un austero monumento. Ma si tengono per mano, in un gesto tenero e quasi infantile.
La cerimonia di lunedì è stata la prima in cui un presidente sloveno ha reso omaggio ai morti di Basovizza, il pozzo minerario in cui furono gettati i corpi di centinaia di italiani e tedeschi uccisi dai partigiani comunisti nel 1945. Ed è stata la prima volta in cui un presidente italiano ha visitato il vicino monumento agli “eroi di Basovizza”, i quattro antifascisti sloveni fucilati per ordine del tribunale speciale fascista nel 1930.
Anche la data scelta è simbolica. Il 13 luglio era esattamente un secolo dall’incendio del Narodni Dom, il più importante centro culturale slavo della città di Trieste, dato alle fiamme da un gruppo di fascisti locali in quella che gli storici considerano ancora oggi la prima azione squadrista organizzata della nostra storia.
A quell’azione seguirono due decenni di repressione della minoranza slovena a Trieste e lungo tutto il confine orientale e, dopo lo scoppio della guerra, quasi cinque anni di brutale occupazione italo-tedesca dell’intera Slovenia. Quando le fortune del conflitto si rovesciarono, furono le forze jugoslave a perseguitare italiani, tedeschi e collaborazionisti o avversari politici sloveni.
In migliaia furono uccisi dopo processi sommari e circa trecentomila italiani abbandonarono la regione.
Sembra una storia lontana e dimenticata nell’Europa di Schengen senza più confini. E appare ancora più remota dopo le cerimonie di questa settimana. Ma dietro la patina dell’ufficialità le antiche tensioni continuano a scorrere.
Alcune associazioni di esuli italiani si sono rifiutate di partecipare all’evento. C’erano timori di manifestazioni da parte sia dell’estrema destra italiana che di quella slovena. L’agenda dell’evento è stata mantenuta il più corta possibile, le celebrazioni sono state rapide e la popolazione locale è stata in gran parte tenuta lontana con imponenti misure di sicurezza.
“Quella del confine orientale è una memoria ancora molto dolorosa”, dice Tommaso Piffer, che insegna storia all’università di Udine: “C’è stata certamente una celebrazione importante, ma chi è passato attraverso quei momenti storici se li porterà dietro per tutta la vita. E questi eventi hanno formato così tante persone che non c’è gesto politico che, per quanto solenne, possa cancellarli”.
È un problema che gli storici conoscono bene. La memoria, lo strumento con cui istintivamente guardiamo e misuriamo il nostro passato, è un oggetto complicato da manipolare, facilmente influenzabile dal presente. Le vicende del confine orientale ne sono un ottimo esempio: dimenticate, o almeno nascoste, per convenienza dei partiti della prima repubblica e riscoperte per essere utilizzate come clava contro gli avversari politici durante la seconda.
“Quello che di certo chiude le ferite è la storia sia nel senso di passaggio del tempo sia, soprattutto, nel senso della ricerca storica”, dice Piffer: “La storia mette cose nel contesto giusto, smitizza certi eventi, dà importanza ad altri considerati marginali, permette pacificazioni. Ma la storia può impiegare generazioni a diventare sentire comune”.
Se non siamo ancora a quel punto si può almeno dire che gli storici fino ad ora hanno fatto un buon lavoro.
Nel 2001, una commissione formata da dieci storici italiani e dieci sloveni ha pubblicato una relazione condivisa sui rapporti tra i due paesi e i loro conflitti . Si tratta di una ventina di pagine in cui la storia dell’occupazione italiana, della nascita del fascismo, dell’oppressione della minoranza slava, dell’invasione, dell’occupazione e infine della rappresaglia jugoslava vengono raccontate in modo semplice, neutrale e comprensibile anche per il grande pubblico.
Quello che emerge da questo e da molti altri lavori degli storici professionisti è che quello “non era soltanto un mondo di conflitto tra italiani e slavi”, racconta Marco Bresciani, ricercatore all’università di Firenze ed esperto della storia della Venezia Giulia. “Trieste era una città multiculturale, con tante comunità che rispecchiavano la varietà dell’impero asburgico”.
“I socialisti facevano una politica internazionalista, che puntava ad unire italiani e sloveni. I fascisti in quest’area puntarono sull'assalto antislavo, ma anche antisocialista per distruggere le istituzioni liberali con una rottura violenta del passato ordine asburgico”. In altre parole, i conflitti e le alleanze che percorrevano quell’area non erano strettamente limitati alla contrapposizione tra italiani e slavi
L’annessione all’Italia dopo la Prima guerra mondiale, ad esempio, portò in città numerosi funzionari italiani provenienti da altre regioni, creando concorrenza e frizioni non solo con gli sloveni, ma anche con i funzionari italiani.
L’annessione portò a Trieste la crisi economica e altre divisioni si aprirono su linee sociali e di classe. “La storia ben fatta, filologicamente accurata ci racconta la complessità in cui viviamo: linee di faglia, fratture che non sono mai univoche, che sono sempre multiple, tortuose e non descrivono mai un conflitto chiaramente dualistico”.
Questo è quello che rende questa vicenda ancora così attuale. In un’epoca in cui in maniera crescente una politica polarizzata ci presenta scelte alternative apparentemente inconciliabili e un mondo diviso nettamente tra “noi” e “loro”, dove loro spesso hanno un diverso colore della pelle o una religione differente, la storia, anche quella più dolorosa e luttuosa ci insegna che le cose non sono mai così semplici.
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