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Milano è la capitale indiscussa dei ristoranti “etnici”. Oggi un milanese su tre mangia cibo straniero una quindicina di volte all’anno. Numeri superiori alla media nazionale
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Il motivo non è solo la maggiore offerta rispetto ad altre città d’Italia, gioca un ruolo importante anche la progressiva scomparsa delle vecchie trattorie popolari
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Ma c’è un fenomeno ancora più interessante: l’eredità degli osti meneghini sempre più spesso è portata avanti da famiglie cinesi
È venerdì pomeriggio. Si respira quell’aria pungente di inizio primavera che fa venire una voglia indistinta di ogni cosa. Viene in mente che tra amici si era detto: venerdì andiamo a cena fuori. Era mercoledì (più o meno una vita fa) e tu eri stata incaricata del terribile compito di prenotare. Te ne sei chiaramente dimenticata.
Cerchi di redimerti chiamando all’ultimo la trattoria selezionata, quella dove il risotto è buonissimo, si dice. Risponde un signore che ha il tono scocciato di chi ha di meglio da fare: «Pronto». «Buonasera, volevo chiedere se era possibile prenotare un tavolo da sei per questa sera». «Per questa sera? Eh no, signora», ti liquida con un risolino finale tra il compassionevole e lo sfottente.
Ok, avanti il prossimo. Qui ambiente vecchia Milano, buona la carne. Mettono in atto una strategia diversa, quella della falsa speranza: «Non prendiamo prenotazioni, vi conviene venire verso le sette o verso lo dieci, però non garantiamo niente». Basta un giro di recensioni per capire che si passerebbe la sera in piedi con altre decine di disperati dell’ultimo minuto con uno sguardo da cane che sbava sul piatto degli altri e tiene d’occhio quelli all’amaro che non si capisce cosa aspettino a chiedere il conto e spostarsi al bar.
Al terzo no viene da chiedersi dove siano finite le trattorie quelle normali, a Milano. Quelle che erano un posto facile per definizione, si apriva la porta, si diceva buonasera, si prendeva posto e si ordinava. Nel frattempo sul gruppo di WhatsApp degli amici si stanno condensando le stanchezze della settimana, il nervosismo di quello che non ha ancora chiuso il computer e pensa vi prego pietà, ci manca solo che cenare con gli amici sia più stressante di queste ultime mail che ho da scrivere. Allora uno si fa avanti: ma il ristorante cinese? Il ristorante cinese! Certo. Chiaro. Perché non l’abbiamo detto prima? Già mercoledì, dovevamo dirlo già mercoledì che era una buona idea, ci si sarebbe risparmiati lo sprezzo dell’oste al telefono.
Salsa di soia e vino bianco
Un’ora dopo siamo davanti all’ingresso: in dieci perché si sono aggiunti gli amici degli amici. Ci dicono prego e noi sfiliamo verso la tavola rotonda che ci hanno indicato. Ha un’aria da riunione di loggia massonica, un tavolo a cui si decidono cose importanti per le sorti del mondo guardandosi bene negli occhi. La luce fredda che aleggia su tutta la sala rende l’acquario dall’acqua verdognola ancora più squallido di com’è. Ed è molto squallido: c’è un povero crostaceo ribaltato sulla schiena, ti vien pietà, ma vabbè, è ora di concentrarsi sul menù.
Dodici pagine fitte fitte dai grandi classici alle pietanze della categoria hard-core. La verità è che ci vogliono cinque minuti. Si è tutti d’accordo sui ravioli di carne alla griglia, le tagliatelle verdure e gamberi. I vicini di posto iniziano ad accordarsi per dividere le melanzane stufate con la carne, un trionfo di olio che il riso bianco è la morte sua. Quanti involtini? Quante pentole di fuoco? La cameriera è una ragazza svelta, neanche il tempo di esprimere i nostri desideri che ha già annotato tutto e scappa dai prossimi. Nemmeno lei vuole perdere tempo ma è una questione di efficienza, non le interessa essere antipatica, le interessa che tu ti muova. Ripensi al ristoratore milanese e al suo tono: ci sono volute generazioni di sangue meneghino per quell’antipatia lì, non è una roba che si improvvisa.
Non fai in tempo a chiedere all’amica dall’altra parte del tavolo massonico com’è che è finita quella storia con quell’uno con cui stava uscendo che già sono comparse sul tavolo tre brocche di bianco della casa, il vino che non è uno spumante e non è fermo: frizzantino, nove euro il litro. Segui con lo sguardo le bollicine che esplodono sul vetro del calice, fai un sorso generoso e ti senti già un po’ più leggera, ti dà subito un colpicino dritto alla testa. Arrivano i ravioli: si gira il vassoio tondo al centro del tavolo per accaparrarseli, quelli lenti rimangono fregati. L’amico (previdente) due posti più in là si è salvato il maglione dalle macchie perché si era messo il tovagliolo al collo come Alberto Sordi con gli spaghetti al pomodoro. L’altro (principiante) si è ustionato la lingua perché non ha capito che il tempo che separa i ravioli dalla griglia al tavolo è forse al massimo quaranta secondi.
Finito di mangiare e bevuta anche l’ultima goccia di vino - la bottiglia di acqua naturale è ancora lì intatta, un sorso l’ha bevuto solo chi ha ordinato la pentola di fuoco - si pensa agli amari. Quanti del Capo, quanti Montenegro? Qualcuno si avventura sulla grappa al ginseng. Nel frattempo il volume delle voci si è alzato, qualcuno ride un po’ sguaiato, ci si scambia qualche battuta con quelli del tavolo a fianco, anche loro un bel gruppo. Si arriva addirittura a pensare di poter fare amicizia, che sarebbe anche normale non si fosse pur sempre a Milano, dove la seriosità e la riservatezza sono beni preziosi quasi quanto un contratto d’affitto 4+4 firmato nel 2017.
Capitale della cucina straniera
È impossibile contestare a Milano il ruolo di capitale della cucina straniera in Italia. Nel capoluogo lombardo esistevano locali cinesi già all’inizio del Novecento, tutti all’interno della Chinatown che si era sviluppata in via Paolo Sarpi. Da allora la crescita è stata costante fino al boom degli anni Ottanta, quando i milanesi hanno iniziato a frequentare assiduamente i ristoranti orientali insieme ai fast food americani, diventati luogo di culto per i paninari di piazza san Babila.
Oggi un milanese su tre mangia cibo etnico una quindicina di volte all’anno. Numeri superiori alla media nazionale. Il motivo non è solo la maggiore offerta rispetto ad altre città d’Italia, gioca un ruolo importante anche la progressiva scomparsa delle vecchie trattorie popolari. Negli ultimi anni a Milano si è visto un gran fiorire di cosiddette trattorie contemporanee, ristoranti che pongono una grande attenzione alla qualità delle materie prime, alla filiera, al servizio, alla carta dei vini e, non ultima, all’estetica del locale. I prezzi però sono ben lontani da quelli di una vera trattoria e anche l’esperienza generale è tutt’altro che scanzonata. Se pure sono molti i progetti interessanti che tentano di conciliare tradizione e innovazione, si è però andata assottigliando rovinosamente l’offerta di trattorie veramente popolari, dove tre dovrebbero essere le caratteristiche fondamentali: l’accoglienza calorosa e informale, il buon rapporto qualità/prezzo e la predilezione per proposte legate al territorio, senza grandi fronzoli. Questi posti, che fanno Italia nell’immaginario estero, a Milano sono diventati così rari che i pochi che resistono vengono presi d’assalto: e poco importa che si mangi spesso piuttosto male e si venga trattati peggio, importa di più il folclore e la possibilità di riunirsi fra amici in quell’atmosfera di caciara che altrove è stata bandita.
L’èra dell’apericena
Il declino delle rimpiante trattorie popolari è iniziato quando ha preso piede il concetto di apericena. Sembra lontano e invece era ieri il tempo dei bar dove con 15 euro bevevi uno spritz annacquato e ti lanciavi aggressivo sul buffet per accaparrarti la lasagna appena uscita dal forno, il pollo con patate e le mozzarelline fritte. Complice le restrizioni per la pandemia, anche gli apericena sono al tramonto. In questi ultimi quindici anni però la loro supremazia ha avuto degli effetti: mentre si riempivano i locali che offrivano questa formula si svuotavano i ristoranti storici che stavano all’incirca sulla stessa fascia di prezzo.
Oggi, che sembra registrarsi invece un rinnovato interesse per i piatti semplici della tradizione, non si sa più dove andare. E così, quando l'intenzione è quella della cena tra amici, la scelta ricade sui ristoranti etnici: non solo cinesi ma indiani, coreani, greci. Perché lì invece l’offerta è ricca, il servizio veloce e amichevole, i coperti sempre sufficienti per ospitare gruppi numerosi e poi per la ragione più importante di tutte: si sta un gran bene.
I nuovi osti
Ma c’è un fenomeno ancora più interessante: l’eredità degli osti meneghini sempre più spesso è portata avanti da famiglie cinesi che prendono in mano attività già avviate con una loro clientela fedele e, senza spostare una virgola, continuano a proporre gli stessi piatti, agli stessi prezzi. È il caso di molte vecchie trattorie fuori dal centro, nei quartieri residenziali.
Quando si pensa alla penetrazione di imprenditori e lavoratori cinesi si pensa prevalentemente alla presa in gestione di vecchi bar, spesso con tabacchi. Il fenomeno si è però nel frattempo esteso anche al campo della ristorazione più tradizionale, con un modello che funziona. Lo racconta la gestrice di un ristorante a Nolo, zona gentrificata a nord di Loreto: è una donna cinese che insieme al marito vent’anni fa ha rilevato l’attività di una coppia pugliese.
«Ho molti parenti a Milano che sono arrivati dalla Cina alla fine degli anni Novanta e hanno preso in gestione alcuni ristoranti italiani. Grazie a loro abbiamo avuto qualche dritta per iniziare. Abbiamo capito che non dovevamo per forza trasformare il locale e stravolgerne la cucina, potevamo portare avanti un’attività che aveva già una storia, anche se non era la nostra». Il locale è in tutto e per tutto uguale a come l’hanno trovato, la clientela anche.
L’insegna recita ancora “Da Franco e Rosy”. «I primi due anni sono stati difficili: quando la gente entrava e vedeva il personale cinese faceva dietrofront e lasciava il ristorante. Adesso invece ci conoscono, si fidano della qualità. Sanno che mio marito è un bravissimo cuoco, gli chiedono le orecchiette alle cime di rapa e la pasta e fagioli e tornano contenti ogni giorno in pausa pranzo». Fa vedere il menù del giorno: penne al ragù sei euro e cinquanta, risotto alla milanese sette, cotoletta con patate otto. Mentre parliamo sedute ai tavolini del dehors ci interrompono almeno cinque persone per salutarla. Ci spiega che in quartiere la conoscono tutti: «A volte vorrei chiudere il lunedì per riposare ma poi penso che mi dispiace se non trovano un posto dove mangiare bene a pranzo. E poi questo lavoro è la mia vita. Si chiacchiera, ci si diverte. Potevamo aprire un ristorante cinese di livello dato che mio marito in Cina lavorava come chef, ma preferiamo così, una cosa più semplice». Una cosa più semplice. Un’ottima sintesi e insieme un augurio: continuare ad essere fedeli alle cose più semplici e a chi le tiene in vita
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