La sciatrice statunitense rientra in Coppa del mondo a St. Moritz all’età di 40 anni, dopo quasi sei di assenza, con le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 come possibile prospettiva. Ma intanto il mondo attorno a lei è cambiato, molti colleghi ritengono che sia pericoloso. Se nella vita l’ossessione della longevità si persegue per mezzo di costosi trattamenti, nello sport per dimostrare la propria lunga durata è sufficiente non smettere. Eppure nell’agonismo i lifting non funzionano
Who wants to live forever, chi vuole vivere per sempre, cantava Freddie Mercury con la sua voce – quella sì – immortale. Era il 1986, ma la domanda è eterna. E oggi la risposta è chiara: tutti, tutti vorrebbero vivere per sempre. I progressi della medicina e della scienza ci garantiscono un’esistenza in vita più lunga, in media trent’anni in più rispetto al 1900. Il problema non è più la durata, ma la qualità dei trent’anni in più che ci siamo assicurati: un tempo non si viveva abbastanza a lungo da dover affrontare i disturbi dell’età avanzata, invece oggi invecchiamo e dobbiamo farci i conti. In Italia per ogni bambino ci sono cinque ultrasessantacinquenni, e la tentazione è quella di confondere una vita lunga con una che valga la pena vivere. Una vita attiva, sana, desiderabile. Ma se la scienza lavora per prolungarla, dall’altra parte la natura gioca contro: non ci vuole un filosofo per capire che è il rallentamento del corpo e della mente a rendere la morte tollerabile, a volte addirittura desiderabile.
Come sempre, lo sport è vita accelerata. E tutto questo processo – l’aspettativa di vita che si allunga, i guai connessi all’invecchiamento, il pensiero della fine – i campioni lo affrontano molto prima degli altri. È l’esistenza sportiva che si chiude, è un altro tipo di morte, ma il meccanismo è ugualmente lacerante. E l’ossessione della longevità assilla gli sportivi molti decenni prima delle altre persone.
I fenomeni del passato
I fenomeni di lunga vita agonistica sono sempre esistiti: Stanley Matthews vinse il Pallone d’Oro a 41 anni, e giocò a calcio fino ai 50; il centravanti del Camerun Roger Milla è stato il più anziano marcatore in un Mondiale, a 42 anni e 39 giorni; George Foreman diventò campione del mondo dei pesi massimi a 45 anni e 299 giorni; lo schermidore Edoardo Mangiarotti rivinse lo stesso titolo olimpico a 24 anni di distanza.
Ma la pretesa di eterna giovinezza nello sport si misura facilmente: vinci o perdi, sei competitivo o diventi patetico. Non è come quando vedi qualcuno dopo tanto tempo e ti dice che non sei per niente cambiato: quella può essere anche una bugia. Ma quando competi non ci sono scuse: il punteggio non mente, e la misura del tempo te la dà il cronometro.
Se nella vita l’ossessione della longevità si persegue per mezzo di costosi trattamenti, cliniche specializzate che promettono di riportare indietro gli orologi, integratori dai poteri magici o supposti tali, iniezioni di cellule staminali, nello sport per dimostrare la propria lunga durata è sufficiente non smettere. E se proprio hai ceduto in un momento di debolezza (o chissà, di lucidità) puoi sempre tornare. Ma il problema, come nella vita di tutti i giorni, va oltre la semplice contabilità degli anni di agonismo: puoi anche giocare, correre e saltare fino a quarant’anni e oltre, ma sei in grado di farlo meglio di quelli che potrebbero – letteralmente – essere i tuoi figli? Quello che aggiunge l’esperienza troppo spesso soccombe di fronte alla prestanza fisica. Nell’agonismo i lifting non funzionano.
Un mondo nuovo
L’ultima fuoriclasse alla ricerca dell’elisir di lunga vita è Lindsey Vonn, che torna allo sci a quarant’anni (li ha compiuti in ottobre) dopo quasi sei di assenza (l’ultima medaglia mondiale è del 2019) con l’obiettivo dichiarato di divertirsi. Non vi lasciate ingannare: una come lei, che ha collezionato tre medaglie olimpiche, tra cui un oro, otto medaglie mondiali con due titoli, quattro Coppe del Mondo generali e sedici di specialità, oltre a 82 successi di cui 43 in discesa, difficilmente si diverte se non vince. Quindi ciò che vuole in realtà è tornare a essere Lindsey Vonn, quella di prima.
Il suo marchio di fabbrica è sempre stato la velocità, andava così forte che si lanciava di continuo contro le reti di sicurezza rompendosi le ossa. Il punto interrogativo riguarda esattamente questo: riuscirà ad essere rapida come quando era giovane? Il lifting basterà? All'inizio di quest'anno Vonn si è sottoposta a una parziale sostituzione del ginocchio destro troppe volte lesionato ed è tornata ad allenarsi negli ultimi due mesi. «Con questo nuovo ginocchio mi sento come se un altro capitolo della mia vita si stesse aprendo davanti ai miei occhi. Non vedo l'ora di condividere la mia conoscenza di questo sport con queste donne incredibili», ha detto.
Ma intanto il mondo attorno a lei è cambiato. Lara Colturi, talento italiano che scia sotto bandiera albanese, aveva tre anni e andava al nido quando Vonn vinse l’oro olimpico a Vancouver. E l’ambiente dello sci storce il naso. L’olimpionico svizzero Bernhard Russi, 76 anni, è stato duro, «non ha alcuna possibilità, ed è estremamente pericoloso», e ha cercato di rimettere Vonn al suo posto, «è una donna vivace, attraente e interessante, dovrebbe essere presente in Coppa del Mondo, ma in un ruolo diverso dal precedente».
Ma Lindsey è stanca di sentire consigli e va per la sua strada. Promette che il rientro sarà graduale ma poi si lascia sfuggire un possibile orizzonte. Nel 2026 ci sono le Olimpiadi in Italia, e potrebbero essere un risarcimento per lei che troppe volte è stata fermata da rovinosi infortuni. «Non posso dire adesso se è una possibilità. Ma penso che tutti sappiano quanto amo Cortina». Ecco cosa vuole davvero: riportare indietro gli orologi, riprendersi quello che le cadute le hanno tolto: medaglie, Olimpiadi, anni.
Latte di asina e pisolini
C’è chi lo sport lo ha lasciato prestissimo: Bjorn Borg aveva 26 anni quando ha smesso di fare il tennista, Marco Van Basten ha lasciato il calcio quando ne aveva 28. C’è chi invece è rimasto così a lungo da essersi trovato in campo con suo figlio: Dino Meneghin ha giocato con Andrea, LeBron James e Bronny sono riusciti a fare coppia in Nba. I padroni di un’era irripetibile del tennis hanno pianto prima di staccare il cordone ombelicale: Roger Federer ha scoperto che esiste una vita anche dopo i tornei, Rafa Nadal lo ha seguito quando ormai il suo fisico gli urlava di smettere, Nole Djokovic resiste ma prova a cambiare tutto quello che può (dai coach alla dieta, che ora comprende un formaggio di latte di asina serbo che costa 1.000 euro al chilo).
Le fissazioni sono parte integrante di questa ossessione di lunga vita. Cristiano Ronaldo il 5 febbraio compirà 40 anni e quest’anno ha giocato il sesto Europeo col Portogallo. La sua routine comprende sei pasti e sei sonnellini al giorno per sentirsi dieci anni in meno. Dieci anni di meno ma provate a immaginare che noia. Il ciclismo negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con un fenomeno inedito: l’avvento massiccio di talenti fortissimi e giovanissimi. Ventenni capaci di vincere classiche e grandi Giri al principio della carriera, quando vecchi dirigenti ancora si affannano a spiegare che serve tempo per maturare.
Di fronte a Tadej Pogacar, capace di trionfare al Tour de France prima di compiere 22 anni, la via d’uscita di quelli che si trascinano fino ai 40 senza aver mai vinto granché è sempre la stessa: «Non durerà come noi, si stancherà prima di arrivare a 35 anni». Lo sloveno ne ha appena compiuti 26 e ha già vinto tre volte il Tour de France, una volta il Giro d'Italia, un mondiale, 7 classiche Monumento, 26 tappe nei grandi Giri più tutto il resto. Se smettesse oggi sarebbe già ricordato come uno dei più forti di sempre, un Coppi, un Merckx. Siamo proprio sicuri che fra dieci anni non abbia voglia di una vita normale?
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