Ahmadreza Djalali, che è stato ricercatore anche in Piemonte, è in carcere dal 2016 e la sua esecuzione per ora è stata rinviata. L’Iran in cambio vuole il suo diplomatico a processo in Belgio. La strategia di Teheran è imprigionare cittadini con doppio passaporto per usarli come merce di scambio
- Djalali non ha accettato di farsi reclutare come spia per il governo iraniano e da allora è cominciato il suo incubo: l’isolamento in carcere, le minacce alla famiglia, le torture psicologiche, infine l’accusa di essere lui una spia al servizio di «governi ostili».
- Sul ricercatore iraniano-svedese pende una condanna a morte rinviata di giorno in giorno: Teheran spera di usare la sua liberazione come merce di scambio.
- Chiede in cambio la restituzione di un diplomatico iraniano a processo in Belgio,con l’accusa di aver architettato un attentato terroristico (poi fallito) nei dintorni di Parigi.
Per centoventi scienziati, tutti premi Nobel, è un collega da liberare. Per suo figlio di otto anni, che lo crede in Iran per lavoro, è il padre che non torna, che preferisce la carriera a lui; non sa che il padre è in prigione, condannato a morte, e che la sua esecuzione è stata solo posticipata di qualche giorno. Per il ministro degli Esteri iraniano, è un ostaggio da scambiare con un altro prigioniero, è un’arma negoziale da usare con i paesi dell’occidente ostile. Eppure, fino a quattro anni fa, Ahmadreza Djalali era un semplice e stimato ricercatore con doppia cittadinanza iraniana e svedese, con connessioni accademiche pure in Italia e Belgio. Djalali non ha accettato di farsi reclutare come spia per il governo iraniano e da allora è cominciato il suo incubo: l’isolamento in carcere, le minacce alla famiglia, le torture psicologiche, infine l’accusa di essere lui una spia al servizio di «governi ostili». E una condanna a morte rinviata di giorno in giorno, nella speranza di Teheran che la liberazione di Djalali possa essere usata come merce di scambio. Il governo chiede in cambio la restituzione di un diplomatico iraniano, Assadollah Assadi, attualmente a processo ad Anversa, in Belgio, con l’accusa di aver architettato un attentato terroristico (poi fallito) a Villepinte, nei dintorni di Parigi, a un raduno con oltre 25mila persone che manifestavano contro il regime iraniano. Teheran nega di essere dietro quel piano terroristico, ma l’intenzione è che il diplomatico non parli in aula, e torni in patria, dove il suo destino potrà essere in mano al governo dell’Iran.
La vita precedente
Prima del 2016, Djalali si occupa di medicina dei disastri. Ha una carriera accademica che si articola tra la libera università di Bruxelles, l’università del Piemonte orientale e l’istituto Karolinska, a pochi chilometri da Stoccolma. Qui, in Svezia, vive con la moglie Vida Mehrannia, ha una figlia, che nel frattempo ora è diventata maggiorenne e sta seguendo le orme del padre; studia medicina al Karolinska. Ha pure un bambino, ancora molto piccolo quando il padre scompare, e che adesso ha otto anni; non si fa prendere sulle spalle più da nessuno, racconta Mehrannia, perché aspetta che sia il padre a sollevarlo in braccio. Luca Ragazzoni, ricercatore dell’università del Piemonte orientale, ha lavorato con Djalali per anni, quando entrambi condividevano progetti su progetti al centro di ricerca che si occupa di medicina dei disastri. Più che un collega, è un amico: così stretto che «sono l’unico, a parte la famiglia, ad aver sentito per telefono Ahmadreza quando poi è stato incarcerato». E come lo descriverebbe? «Brillante, visionario, determinato. Volevamo che il nostro centro di ricerca a Novara fosse un avamposto internazionale per la nostra disciplina. Ma pure posato, pacato, umile, gentile, generoso e corretto coi colleghi». Secondo Ragazzoni, nei progetti sulla medicina dei disastri non c’è nulla di segreto che uno stato possa aver interesse a carpire: si tratta di ricerche messe a disposizione di tutta la comunità scientifica. Tra l’altro, pure la comunità iraniana: ogni anno, Djalali aveva l’abitudine di fare una visita nel suo paese, per andare a trovare la famiglia, i genitori e la sorella, e di solito faceva combinare la riunione familiare con qualche convegno. «A un convegno in Iran sono andato pure io con Djalali». Anche nel 2015, lo scienziato torna nel suo paese d’origine per i soliti motivi. Quell’anno lo fermano le forze di polizia iraniane e provano a ingaggiarlo come spia. Del resto il ricercatore si muove con disinvoltura nel mondo accademico europeo, ha una fitta rete di relazioni. Ma lui rifiuta. L’anno dopo – siamo nell’aprile 2016 – torna per la sua visita consueta, ha in programma conferenze all’università di Teheran e a quella di Shiraz.
Il tunnel e la fine
Ma finisce nelle mani delle autorità iraniane. Lo arrestano, senza motivo apparente, lo trasferiscono in prigione, lo tengono in isolamento. All’inizio neppure la moglie sa che fine abbia fatto il ricercatore, poi lo sa ma tace tutto perché le autorità iraniane la minacciano: si risolve tutto presto, le dicono; se fai rumore le cose peggioreranno. Tina Marinari lavora per Amnesty International e ha seguito il caso dall’inizio; è in contatto con Mehrannia, la moglie, che ha incontrato a Stoccolma. Racconta che la donna ha deciso di rivolgersi ad Amnesty e ai colleghi del marito quando ha capito che Djalali rischiava la vita. Su di lui era piombata una condanna a morte con accusa di spionaggio. «In isolamento, è stato sottoposto a tortura psicologica: è stato tenuto in condizioni durissime, con minacce alla sua famiglia, l’impossibilità di sentirla». In questo contesto Djalali viene spinto, «come spesso capita in Iran», a una confessione via tv, dove dice di essere una spia. Conferma insomma l’accusa: spionaggio per governi ostili. Ma quell’ammissione estorta verrà poi rinnegata da lui stesso con una lettera. Il 21 ottobre 2017 è il giorno in cui Djalali viene condannato a morte, da allora la sua esecuzione viene solo rinviata. L’ultimo rinvio risale a questa settimana: posposta ai prossimi giorni, dice un laconico comunicato. In realtà stavolta pare esserci una luce in fondo al tunnel. «Mentre prima ero convinto che la vita del mio amico fosse in mano agli iraniani», dice Ragazzoni, «adesso ho la certezza che ce l’abbiano in mano i ministri degli Esteri dei paesi europei coinvolti, Italia Belgio e Svezia, e l’alto rappresentante Ue Josep Borrell». Perché? Perché «tenere Djalali in ostaggio ha una funzione che è cambiata nel tempo». Una volta era forse strumento negoziale per un paese in scontro frontale con gli Stati Uniti di Trump. Ora è certamente un oggetto di scambio. L’Iran in cambio vuole il suo diplomatico a processo in Belgio. Il ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, in un’intervista all’Ispi ha ammesso spudoratamente che «sì, ci sono molte proposte fatte dall’Iran per uno scambio di prigionieri»; è stato di recente rilasciato un accademico con doppia cittadinanza iraniana e australiana, e il prossimo potrebbe essere Djalali. Ma quanto costerebbe all’Europa accettare la logica degli scambi? Riccardo Noury, portavoce di Amnesty, dice che «da almeno 4 anni, in particolare con i governi Trump e Johnson, l’Iran ha intensificato la persecuzione di iraniani con doppio passaporto per mettere pressione sui governi occidentali e ottenere di volta in volta contropartite».
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