Il 20 marzo Francesco Schiavone dal carcere, con il saluto al figlio, ha formalizzato l’accordo. Un patto che prevedeva il falso pentimento e l’ennesimo attacco alle istituzioni. I verbali
Ma siamo davvero sicuri che il bacio non ci fu? Il bacio mafioso tra padre e figlio, tra il boss chiamato Sandokan e l’ultimo dei maschi di famiglia, il più ribelle. Molto inchiostro è stato usato per spiegare la fenomenologia di un diniego, lo strappo generazionale tra vecchia e nuova camorra, tra una collaborazione controversa sin dalla sua genesi ma comunque auspicata e la voglia di potere mai placata dei più giovani.
Si è detto e scritto: quando Francesco Schiavone, il 20 marzo scorso, ha incontrato il giovane Emanuele Libero, che era a un mese dalla scarcerazione, ha ascoltato le sue proteste, ha preso atto del suo rifiuto di entrare nel programma di protezione e, alla fine del colloquio, ovviamente videoregistrato, è andato via. Sembrava l’avvio di due percorsi separati, il vecchio capo dei Casalesi ormai arreso, il giovane fermo nei suoi propositi di battaglia.
Sapevano entrambi di essere osservati, la pantomima – raccontata come la scena di un film – fatta a favore di telecamera. Ma le cose non sarebbero andate affatto così.
E bacio fu
Prima di voltare le spalle, il boss ha ricambiato il bacio dato dal figlio. Suggellando il nuovo patto di famiglia. È quel giorno, quattro mesi e dodici giorni fa, che il boss ripiega sulla finta collaborazione (ufficialmente annunciata a fine marzo).
Fino a quel momento aveva raccontato poco. Solo racconti pieni di suggestioni, di richiami ai tempi “eroici” della camorra che si faceva mafia, agli incontri con i capi di Cosa nostra italiana e americana, agli scenari del narcotraffico internazionale. Aveva fornito indicazioni sul luogo della sepoltura di Paride Salzillo, il nipote di Antonio Bardellino, ucciso il 26 maggio del 1988 e i cui resti non sono stati mai trovati.
Aveva lasciato intendere, Francesco Schiavone, che ben presto altri e più utili particolari sarebbero emersi. Poi, la progressiva retromarcia fatta di ricostruzioni monche o improbabili, un pizzico di verità e gigantesche amnesie. Chi lo interrogava aveva fatto proprie le curiosità personali chiedendo conto del traffico dei rifiuti: «È una cosa che ho subito», ha risposto Schiavone. Negando responsabilità penali e morali.
E così sui rapporti con la politica, sminuendo anche quelli documentati da intercettazioni telefoniche. A voler seguire il filo dei suoi racconti, di quel poco che si conosce, più che un capo, più che l’erede di Bardellino, Schiavone sarebbe poco più di un gregario, comunque ignaro di cosa accadeva sotto i suoi occhi, a pochi centimetri dalla sua casa. Solo su chi ha negato i soldi alla sua famiglia nell’ultimo miglio della sua detenzione al 41 bis Sandokan è stato lucido e preciso.
A dimostrare che era quella, la vendetta, la ragione del suo pentimento posticcio. Vendetta e monito a quanti, oltre ai fratelli Schiavone del processo per gli appalti Rfi, detengono altri panetti di lievito madre: prestanome che, alla scarcerazione di Emanuele Libero, si sono affrettati a pagare. Con le buone, con le cattive. In ossequio agli ordini del capo, trasmessi con quell’ultimo bacio.
Il traffico di rifiuti?
Per tre mesi Schiavone padre ha provato, insomma, a fare il collaboratore, ma non ci è riuscito. Novanta giorni, forse il tempo giusto, per mandare messaggi obliqui. Una risposta, tra le tante, suscita interesse perché nella ventina di colloqui con gli investigatori, guidati dal procuratore capo Nicola Gratteri, a un certo punto il capo dei capi ha parlato anche dell’affare rifiuti, scaricando ogni responsabilità con la risposta: «L’ho subito».
Quando la notizia dell’avvio della collaborazione di Sandokan si è diffusa, preti, attivisti, politici, semplici cittadini hanno chiesto verità e la giustizia proprio sull’affare rifiuti, su quella alleanza che aveva unito a metà degli anni Ottanta camorra, politica, massoneria e mondo delle professioni per trasformare la Campania in un laboratorio criminale: la discarica d’Italia. Ma Schiavone ha davvero subito quell’affare? La sua risposta è evasiva e boriosa. Di certo quell’affare è stato concepito e ideato da un avvocato, candidato non eletto in Forza Italia e amico dei camorristi, Cipriano Chianese.
Ormai è un dato giudiziariamente consolidato dopo la sentenza definitiva emessa dalla corte di Cassazione. Il patto, che vedeva la convergenza d’interessi molteplici, coinvolse la fazione criminale del clan Perrella di Napoli e dei Bidognetti per l’area casertana. In particolare Francesco Bidognetti, detto “cicciotto ‘e mezzanotte”, che nell’affare era entrato piazzando come sua pedina Gaetano Cerci, detto “il ragioniere”, affiliato e parente del boss. C’era Cerci, c’era Chianese, c’erano i titolari delle discariche, i professionisti, i massoni e i Bidognetti che di rifiuti non capivano niente, ma che dividevano la torta. Incassavano la mazzetta sulla spazzatura urbana e tossica che devastava la terra.
E Schiavone? Defilato sì, ma senza esagerare, qui iniziano le bugie del boss furbastro e supponente. Il cugino Carmine Schiavone, utilizzato al tramonto della sua vita come juke-box di storie finte e mezze verità, aveva parlato per primo del business. Era l'inizio degli anni Novanta, per la precisione il 1993.
Un merito, certo, anche se gli altri suoi racconti spesso si sono rivelati generici e inattendibili. Schiavone “Sandokan”, insomma, avrebbe dovuto e potuto raccontare quanto di sua conoscenza, visto che gli introiti per quei traffici venivano riversati nella cassa comune del clan. E quella cassa aveva due padrini, Bidognetti e Sandokan.
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