C’è un dibattito sempre più diffuso su come vadano educati i ragazzi nelle classi. Ma spesso quello che si discute sui giornali non viene invece affrontato dagli insegnanti, troppo abituati a fare «come si è sempre fatto»
Il recente libro di Cristiano Corsini (La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto) e le attività del Coordinamento per la valutazione educativa hanno lanciato un dibattito ampio e informato sugli effetti negativi della votazione numerica o comunque puramente misurativa nella scuola.
Nato nel paese e rilanciato dai giornali, questo dibattito rischia però di rimanere fuori dalla soglia delle scuole fin dai primi collegi docenti. Come ogni primo settembre, migliaia di insegnanti in tutt’Italia sono chiamati a deliberare sulla «divisione dell’anno in trimestri, quadrimestri o pentamestre». È un punto presente per consuetudine nell’ordine del giorno, ma in pratica ci si limita a ratificare la tradizione vigente nell’istituto (nel caso di chi scrive, i trimestri), senza discussione. Eppure la divisione in periodi didattici è il primo problema da affrontare quando si voglia ripensare il rapporto tra didattica e valutazione degli apprendimenti.
Perché i trimestri sono un problema? Dati i due tipi di valutazione previsti nella scuola, quella formativa (in itinere) e quella sommativa (finale), i trimestri rendono troppo frequente la valutazione di questo secondo tipo, che è pura e semplice misurazione (con voto numerico), a scopo non educativo, ma puramente legale (in vista di promozione, piena o con riserva, o bocciatura).
Il problema
Di fronte ai più frequenti scrutini intermedi, gli alunni poco motivati (e nella classe di un istituto professionale saranno l’assoluta maggioranza, quando non la totalità) vedranno nei voti bassi un’ulteriore mortificazione; i più volenterosi potrebbero essere persuasi, da voti sufficienti o discreti, che a contare è solo il voto, aderendo così a una visione opportunistica dell’impegno nello studio, e rischiando comunque di essere presi dall’ansia in caso di flessione anche lieve, ma enfatizzata dai grafici sull’andamento scolastico consultati compulsivamente sul registro elettronico.
Al contrario, un periodo didattico più disteso (un quadrimestre o forse anche una successione di trimestre e pentamestre) sarebbe più consono alla valutazione formativa, l’unica davvero educativa perché orientata a monitorare e a migliorare il processo di apprendimento / insegnamento. Si avrebbe più tempo per sviluppare percorsi coerenti, proponendo al contempo esercizi e verifiche frequenti come richiesto dalla normativa; si avrebbe modo di valutare gli apprendimenti con schede descrittive, da proporre agli alunni, relative alla tipologia degli errori, agli aspetti positivi e quelli ancora da migliorare; si avrebbe il tempo, infine, per mettere a frutto nella didattica i riscontri man mano ricevuti.
Il cambiamento
Eppure, se noi insegnanti continuiamo a identificare valutazione e voto e a credere che solo i voti frequenti ci mettano al riparo da eventuali ricorsi, l’istinto di autotutela fagociterà in noi ogni pensiero relativo ai possibili aspetti educativi della questione: al momento del voto in collegio, il trimestre, laddove vigente, sarà riconfermato. Continueremo a tempestare gli alunni di voti, credendo, forse in buona fede, che sia questo che la normativa ci chiede di fare.
Senza una trasformazione anche graduale dei contesti, a partire dalla questione basilare della durata dei periodi didattici intermedi, ai singoli docenti restano ben poche opportunità di sperimentazione. La libertà di insegnamento, di cui la valutazione è parte integrante, può attuarsi davvero soltanto collegialmente: quanto sarebbe dunque importante rivendicare una vera libertà di dibattito e sperimentazione in seno ai collegi, vincendo l’autodisciplina indotta dalle recenti tradizioni della scuola dell’autonomia, per le quali, ad esempio, anche una valutazione descrittiva potrebbe essere percepita come motivo di discredito in sede di «autovalutazione» dell’istituto (tenuto infatti a stilare, periodicamente, un «rapporto di autovalutazione», il RAV), e come prova di scarsa autorevolezza e severità.
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