Venti anni a Nicola Riva, 22 per il fratello Fabio. Condannato a tre anni, Gianni Florido, ex presidente della provincia di Taranto.Ventuno anni a Girolamo Archinà. Giudicato colpevole anche l’ex direttore dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato.
Dopo nove anni di attesa, è arrivata la sentenza nel maxi-processo Ambiente svenduto sul disastro ambientale causato dall’Ilva.
La Corte d'Assise di Taranto ha condannato Nicola e Fabio Riva, rispettivamente a 20 anni di reclusione il primo e 22 il secondo. Condannati anche l’ex governatore della regione Puglia, Nichi Vendola, a tre anni e sei mesi, accusato di concussione aggravata in concorso, e l’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, condannato invece a tre anni. All'ex responsabile relazioni esterne dell'Ilva, Girolamo Archinà, sono stati inflitti 21 anni e 6 mesi. Giudicato colpevole anche l’ex direttore dell’Arpa Puglia, Giorgio Assennato.
L’ex consulente della procura Lorenzo Liberti, accusato di aver accettato una tangente di 10mila euro, ha ricevuto una condanna a 15 anni di carcere. Assolto, invece, il prefetto Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva.
Lo stabilimento dovrà pagare inoltre una sanzione di 4 milioni di euro ed è stato confiscato.
Il processo
Come raccontato da Michele De Lucia su Domani, dopo 300 udienze, dal 19 maggio scorso la Corte d’assise di Taranto (due magistrati e sei giudici popolari) si è riunita in camera di consiglio per decidere la sorte dei 47 imputati del processo Ambiente svenduto, per i quali sono stati chiesti 390 anni di carcere. È il paradosso della giustizia: la gestione dell’Ilva della famiglia Riva ha coinciso dal 1995 al 2012, gli anni sotto processo, con un immane disastro ambientale. Eppure l’esito del processo è incerto. L’accusa era sicura di sapere ma la giuria doveva stabilire se avesse le prove.
All’inizio del processo, sull’onda delle denunce delle associazioni ambientaliste, delle indagini del pool guidato dall’allora procuratore capo Franco Sebastio e di un incidente probatorio ha visto gli indagati in grande difficoltà, tanto da spingerli a cambiare i difensori.
Il braccio di ferro tra magistratura e acciaieria durava da oltre quarant’anni. Già nel 1982 Sebastio aveva fatto condannare Italsider, Cementir e Idrocalce, ancora pubbliche: contesta l’articolo 674 del codice penale (getto pericoloso di cose) e si avvale di una perizia chimica secondo cui le polveri emesse dalle industrie sono “motivo di molestia e disturbo” per via della loro sedimentazione “abnorme” in determinate zone della città. Attorno allo stesso reato ruotano le due condanne passate in giudicato di Emilio Riva (scomparso nel 2014) e Luigi Capogrosso, nel 2004 e nel 2007, per le emissioni delle cokerie: per l’accusa erano la prova che lo stabilimento, grande due volte e mezzo la città, aveva un impatto ambientale devastante.
L’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE
Con Ambiente svenduto la procura ha il tiro e contestato ai principali imputati, oltre al 674, l’associazione per delinquere (416 codice penale): Nicola e Fabio Riva, i due figli di Emilio, l’avrebbero costituita insieme al direttore Capogrosso, al responsabile relazioni esterne Girolamo Archinà, all’avvocato Francesco Perli e a cinque manager “fiduciari” per commettere i delitti contro la pubblica incolumità previsti dagli articoli 434 (crollo di costruzioni o altri disastri dolosi), 437 (rimozione o omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro) e 439, il più grave (avvelenamento di acque o sostanze alimentari, cioè dei mitili del “primo seno” del Mar Piccolo, dei terreni circostanti l’acciaieria e degli ovicaprini che vi pascolavano), nonché «delitti contro la pubblica amministrazione e la fede pubblica, quali fatti di corruzione, concussione, falsi e abuso d’ufficio»: l’associazione avrebbe consentito all’acciaieria di continuare a produrre senza averne i requisiti, cagionando «eventi di malattia e morte nella popolazione residente», spiega sempre De Lucia.
Per gli associati erano state chieste pene fino a 28 anni di carcere. Tra i politici imputati, l’ex presidente della Puglia Nichi Vendola, per il quale erano stati chiesti 5 anni e l’ex presidente della Provincia di Taranto Giovanni Florido, per il quake erano stati chiesti 4 anni, accusati entrambi di concussione. Il primo nei confronti dell’allora direttore di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, a sua volta imputato di favoreggiamento (1 anno) per aver negato di aver subito la concussione.
Alla base dell’accusa c'erano due perizie di tecnici, quella chimico-ambientale e quella medico-epidemiologica: per i pubblici ministeri sono state queste a provare che l’acciaieria sparge sostanze cancerogene come benzo(a)pirene, diossine e pcb che ogni anno uccidono 30 persone e provocano centinaia di casi di gravi malattie, anche pediatriche. Con i propri consulenti la difesa ha attribuito alle perizie gravi errori metodologici e ha chiamato in causa altre attività inquinanti della zona, assumendo che i veleni individuati non corrispondevano a quelli prodotti dall’Ilva. Il pm ha reagito indicando ai giudici popolari i consulenti della difesa come «prezzolati stregoni che sono venuti a portarvi formule magiche».
Un botta e risposta senza esclusione di colpi: per l’accusa nel 1995 lo stato aveva venduto l’Ilva a prezzo di saldo (1.460 miliardi di lire) a un’associazione per delinquere; per la difesa, in quel momento il gruppo Riva era il più importante gruppo siderurgico italiano che rileva uno stabilimento con perdite dai due ai quattromila miliardi l’anno. Per l’accusa, sotto la gestione pubblica lo stabilimento era un colabrodo di emissioni, per cui i compratori avrebbero dovuto spegnere gli impianti e rifarli da capo; la difesa oppone che il contratto vincolava la nuova proprietà, con penali miliardarie, a mantenere i livelli produttivi e occupazionali. L’accusa, forte della relazione del custode giudiziario dell’Ilva Barbara Valenzano, dice che la gestione Riva «non ha fatto niente» infischiandosene dell’ambiente; la difesa risponde con una consulenza che attesta investimenti ambientali per 1,2 miliardi di euro. Il 5 luglio 2019 una sentenza del gup di Milano, passata in giudicato, ha confermato quegli investimenti, e i dati Arpa citati nella memoria difensiva di Capogrosso dimostrarebbero che le emissioni erano diminuite.
Alla fine, l'accusa ha avuto ragione.
© Riproduzione riservata