Secondo una ricerca condotta da RestWorld, l’agenzia impegnata nella valorizzazione delle risorse umane per la ristorazione, il 91 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver avuto esperienza con il lavoro in nero. Il 54 per cento riferisce di essere attualmente in una situazione irregolare
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Il settore della ristorazione è un settore che a volte si tiene in piedi anche grazie al lavoro di personale sfruttato. Il costo di un piatto spesso cela i risparmi sulla pelle di chi ha contribuito a prepararlo, a servirlo, di chi lo laverà.
Sofia (nome di fantasia) ha lavorato come cameriera in una pizzeria milanese che per una decina di euro offre pizza, bibita e caffè. Descrive ritmi estenuanti: circa 250 coperti per turno, che considerando la rotazione dei tavoli significa servire fino a 800 clienti al giorno. Una pressione costante, amplificata da condizioni di lavoro ben lontane dall’essere dignitose.
«Ci pagavano 30 euro a pranzo e 35 a cena per turni molto pesanti nei quali si servivano centinaia di coperti. Il personale infatti durava poco: non ho mai conosciuto nessuno che fosse rimasto più di 3 o 4 mesi. Il caposala e la cassiera sembravano essere le uniche figure stabili e pagate regolarmente, probabilmente per tenere in piedi il sistema, mentre il resto del personale era trattato come “usa e getta”. I camerieri erano per lo più giovani alla prima esperienza, risorse senza valore: per licenziarmi, mi hanno semplicemente rimossa dal gruppo WhatsApp dei turni, senza neppure avvisarmi».
Il modello sembra basarsi su un turnover continuo, stratagemma che permette di evitare di garantire al personale le tutele previste dalla legge.
Dopo un breve periodo di prova in nero, le avevano fatto firmare un contratto di un mese, ma senza alcuna conferma formale. «Mi hanno chiesto l’iban in chat privata e mi hanno detto che avrebbero registrato tutto, ma dubito che sia mai successo», aggiunge.
I turni estenuanti e i salari ridicoli – circa 4,50 euro l’ora – si accompagnavano ad altre pratiche poco trasparenti: ore di straordinario nascoste sotto la mancata compilazione delle tabelle orarie, ferie non godute mai liquidate e mancato Tfr una volta cessato il rapporto di lavoro. «Il personale straniero era relegato in cucina, lontano dagli occhi dei clienti, mentre noi italiani eravamo in sala a servire i tavoli. I pizzaioli, invece, erano esposti in bella vista».
Il locale ha annunci di lavoro perennemente attivi sulle varie piattaforme online frequentate da chi cerca un’occupazione. Ai candidati viene richiesta disponibilità a turni diurni e notturni, festivi e weekend, oltre a qualità come “attenzione al dettaglio” e “passione per il mondo della ristorazione e gestione della clientela”. Richieste ambiziose per un lavoro che offre retribuzioni irrisorie e condizioni precarie. Questo sistema – che punta sui risparmi attraverso la manodopera a breve termine – permette di offrire prezzi bassi ai clienti, ma a un costo umano alto e tutto a carico dei lavoratori.
Non si tratta purtroppo di un’eccezione. Gli stratagemmi per risparmiare sul personale di sala e della cucina sono diversi e diffusi su larga scala.
I dati
Secondo una ricerca condotta da RestWorld, l’agenzia torinese impegnata nel campo della valorizzazione delle risorse umane per la ristorazione, il 91 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver avuto esperienza con il lavoro in nero, mentre il 54 per cento riferisce di essere attualmente in una situazione lavorativa irregolare. Più della metà dei lavoratori percepisce almeno parte dello stipendio in nero.
«È molto comune fare contratti part-time da 20-30 ore e pagare le ore restanti in nero. È una prassi standard, soprattutto per gli stagionali, che così si ritrovano con difficoltà ad accedere alla Naspi, la disoccupazione, perché non raggiungono il monte giorni lavorativi richiesti nei due anni precedenti. Inoltre, pagando ore in nero, si evita di riconoscere i festivi e i notturni, che sono i principali elementi di guadagno per noi lavoratori. Per esempio, con un contratto part-time di 16-20 ore, mentre in realtà si lavora fino alle due di notte, in busta paga non compaiono le maggiorazioni previste per notturni e straordinari», racconta Lorenzo Sangermano, che ha lavorato per quindici anni nella ristorazione e ne conosce a fondo le dinamiche.
«Io prendo metà ore in nero e metà in regola» racconta Lucia (nome di fantasia), che lavora come cameriera per pagarsi gli studi. «Il mio capo mi ha detto: “Più di così non posso, con le tasse non ti potrei assumere”. Sulle ore in nero comunque arrotonda per eccesso, quindi mi ritengo fortunata, ci sono situazioni di gran lunga peggiori».
Tipologie contrattuali
Le ore fuori busta non sono l’unico metodo utilizzato per risparmiare sui costi del lavoro. Un’altra lavoratrice racconta di essere stata assunta in una delle sedi di una catena di bar a Milano con un contratto di apprendistato, nonostante avesse già anni di esperienza come barista e cameriera.
«Loro guardano la tua età. Se per l’età possono ancora proporti un apprendistato lo fanno, a prescindere dalla tua esperienza, dalla tua autonomia nello svolgere le mansioni e dalle tue capacità».
L’apprendistato professionalizzante è una tipologia contrattuale che combina formazione e lavoro e può essere stipulato se il lavoratore ha un’età compresa tra i 18 e i 29 anni. In teoria il datore di lavoro dovrebbe offrire un percorso formativo al lavoratore assunto, beneficiando così di agevolazioni contributive importanti. Nei fatti però, viene usato arbitrariamente come modo per risparmiare sul costo del personale.
«Mi hanno fatto il contratto di apprendistato per la durata massima consentita, cioè tre anni, in modo da potermi pagare di meno. Ma non ho ricevuto nessuna formazione, anzi, mi capitava di coprire turni da sola, gestire il bar in completa autonomia e fare la chiusura cassa, mansioni che non dovrebbero spettare a un apprendista». Anche questa testimone preferisce rimanere anonima, dal momento che, dopo essersi licenziata un mese fa, non ha ancora ricevuto gli stipendi arretrati e teme possibili ripercussioni.
Poche tutele
Il quadro che emerge dalle testimonianze di chi lavora nel settore della ristorazione è preoccupante: un lavoro precario e sfruttato, in cui il personale di sala o quello impiegato in cucina, specie se non altamente qualificato, ha scarso potere contrattuale e si trova spesso a dover accettare salari inferiori ai minimi previsti dalla legge. Le condizioni di lavoro sono caratterizzate da orari imprevedibili e, in molti casi, il superamento delle 12 ore giornaliere è la norma, spesso sotto forma di “spezzato”, un turno a pranzo e un altro a cena con qualche ora di pausa nel mezzo. Questa è l’altra motivazione dietro all’uso del “fuori busta”, cioè il pagamento in nero: un monte ore così elevato sarebbe impossibile da giustificare se dichiarato ufficialmente.
La scarsa sindacalizzazione del settore della ristorazione è un altro fattore che contribuisce al perdurare delle condizioni di sfruttamento. Molti lavoratori temono che aderire a un sindacato possa comportare conseguenze negative, come la perdita del posto di lavoro o la mancata assunzione. Questo è particolarmente vero per i lavoratori stagionali o a contratto precario, che temono che l’iscrizione a un sindacato possa essere vista come un atto di ribellione e disturbo dello status quo, in grado di danneggiare la loro carriera.
Una paura amplificata da un ambiente di lavoro competitivo, in cui la disponibilità a lavorare più ore e ad accettare condizioni ingiuste è promossa e presentata come “voglia di lavorare”, valore necessario a mantenere l’impiego. Vale purtroppo, ancora, il vecchio e stantio detto: «Non ti va bene? Avanti il prossimo».
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