Un discorso pubblico xenofobo, con toni «divisivi e antagonisti» su stranieri e persone Lgbtq+. Una polizia che profila razzialmente, soprattutto nei confronti dei rom e delle persone di origine africana. Sei nero, parli un’altra lingua o comunque sembri “strano”? Noi ti trattiamo con le maniere forti, consapevolmente o inconsapevolmente che sia. È una critica dura nei confronti dell’Italia quella emersa dal rapporto della Commissione razzismo e intolleranza del Consiglio d’Europa (Ecri).

Un documento aggiornato ad aprile e che quindi non menziona il ddl Sicurezza, che rende facoltativo (anziché obbligatorio) il rinvio della pena per le donne in gravidanza e le madri con bambini piccoli. Aprendo le porte del carcere alle donne incinte o con figli sotto l’anno d’età. «Una disposizione pensata come norma anti rom, basata sul pregiudizio che le donne siano dedite al furto e scelgano la maternità per sottrarsi alla prigione», ha notato Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone.

Come scrive la stessa Ecri, in Italia molti rom risiedono ancora «in insediamenti formali e non formali, spesso privi di servizi di base e situati nelle periferie». Per molti anni, nel panorama europeo, il nostro è stato il “paese dei campi”, quello più impegnato nella gestione di ghetti etnici. Oltre la narrazione dei “rom delinquenti”, qualcosa però sta lentamente cambiando: tra fughe in avanti e qualche frenata, c’è un’Italia che dice addio alle strutture escludenti nate a partire dagli anni Ottanta. E lo fa senza ruspe o sgomberi forzati.

«Forse siamo a un punto di non ritorno, con l’ultimo campo che è stato inaugurato ad Afragola nel 2018», dice Carlo Stasolla, presidente dell’associazione 21 luglio. «In anni recenti, vari comuni hanno intrapreso percorsi di superamento degli insediamenti e quindi la via dell’integrazione». Da Torino a Palermo, da Ferrara a Olbia, fino alla chiusura del campo di via Bonfadini a Milano, lo scorso luglio, con quattordici famiglie ora ospitate nelle case popolari transitorie.

Tra scuola e lavoro

A metà settembre è stata chiusa senza l’intervento delle forze dell’ordine la baraccopoli di via Lombroso, nel quadrante nord-ovest della capitale. Per la prima volta nella storia di Roma, trentatré famiglie hanno lasciato il campo volontariamente e sono state ricollocate «grazie al comune e al terzo settore sulla base di un percorso di integrazione», ha rivendicato il sindaco Roberto Gualtieri.

Chi era in graduatoria ha ottenuto la casa popolare «senza passare davanti a nessuno», gli altri hanno seguito tragitti personalizzati per avere una sistemazione. È un modello di accompagnamento delle famiglie che l’amministrazione vuole replicare in altri campi della città e che è la naturale conclusione di un percorso di coprogettazione annunciato un anno fa, recependo la Strategia nazionale di inclusione di rom e sinti.

«Alla chiusura del campo si è arrivati con vari step. Si è fatta una fotografia puntuale di chi ci viveva e si sono regolarizzati i documenti perché tutti avessero un medico di base. Poi un’equipe si è occupata dell’accesso alle case popolari e ai contributi per l’affitto, mentre un’altra ha pensato all’inserimento lavorativo degli adulti. Bisogna far sì che i bambini frequentino la scuola e che gli adulti trovino la loro strada», dice ancora Stasolla.

Il modello Collegno

Tra gli esempi più virtuosi c’è quello di Collegno, centro di 50mila abitanti alle porte di Torino. Qui lo scorso marzo si è arrivati alla chiusura di un campo regolare dopo un processo di inclusione durato venticinque anni. Non c’è stato uno sgombero ma uno svuotamento condiviso promosso dal comune (con il supporto della prefettura) e finanziato con 500mila euro dal Pnrr e 250mila dal ministero delle Infrastrutture. Una buona gestione che è diventata caso di studio a livello nazionale e possibile modello da replicare.

«Negli anni abbiamo supportato le famiglie perché trovassero una sistemazione, abbandonando le baracche e la vita emarginata», dice Francesco Casciano, ex sindaco di Collegno e responsabile Enti locali del Pd metropolitano. «All’inizio i rom erano preoccupati all’idea di doversi trasferire, ma anche loro sapevano di vivere in un ambiente inadeguato e isolato da tutto, in cui i matrimoni tra consanguinei hanno portato a un alto tasso di bambini disabili».

Casciano vede però un rischio nel modo in cui si è realizzata la sistemazione delle famiglie: «Dalla regione ci aspettavamo maggior sostegno per distribuire i cittadini in varie zone della provincia. Così non è stato: chi aveva diritto a una casa popolare l’ha avuta nella nostra città, che è abbastanza piccola. Gran parte dei rom si sono ritrovati nello stesso quartiere. Il rischio è di riprodurre la logica del campo nelle aree popolari e che si formino nuovi ghetti, in appartamenti anziché in baracche».

La retorica della ruspa

«Con un preavviso di sei mesi, io annuncio la ruspa e poi spiano, rado al suolo tutti i campi rom», diceva Matteo Salvini nell’aprile 2015. «Vi pare normale che ci sia una zingaraccia, in un campo abusivo vicino a Milano, per cui Salvini “deve avere un proiettile”? Arriva la ruspa, amica mia», ripeteva nel 2019 dalla spiaggia del Papeete. Argomenti più volte ripresi da politici di destra, per cui «i nomadi devono nomadare» (copyright Giorgia Meloni). Fino al lapidario «non ci mancherà» pronunciato pochi giorni fa dal capo della Lega, dopo l’uccisione di un giovane maliano che aveva aggredito dei poliziotti.

Eppure sono lontani i giorni in cui Susanna Ceccardi, ex sindaca leghista di Cascina (in provincia di Pisa), saliva sulla ruspa per demolire il campo rom locale, offrendo 500 euro a chi lasciava le baracche. E, di fatto, lasciando i residenti in mezzo alla strada. Era il 2018. Negli ultimi anni si è diffusa l’idea – a sinistra più per ragioni umanitarie, a destra per ragioni securitarie – che realizzare nuovi campi sarebbe assurdo e che gli insediamenti vanno superati non cacciando chi ci vive, che ne costruirà un altro poco distante, ma aiutandolo a trovare casa e a cercare lavoro.

«Gli amministratori locali hanno questa consapevolezza e, a volte, registriamo più buon senso nel centrodestra che nel centrosinistra», aggiunge Stasolla. «Ma la sinistra dovrebbe avere più coraggio e recuperare un’azione radicale, non di facciata. Non si può ripetere che sono i rom a non voler andare nelle case e poi scandalizzarsi se ottengono una casa popolare o se ne occupano una vuota», dice Dijana Pavlović, portavoce del movimento Kethane - rom e sinti per l’Italia.

Fatti o propaganda?

Se c’è un evento che ha segnato il cambio di passo è quanto accaduto a Ferrara durante il primo mandato del leghista Alan Fabbri. Il campo di via delle Bonifiche, occupato trent’anni fa da una comunità rom, fu oggetto di un’ordinanza di sgombero nel 2019. Le persone coinvolte furono trasferite in altre zone della città e alcune inserite nelle case popolari di proprietà dell’Acer (che gestisce l’edilizia residenziale pubblica), sfruttando il fatto che ogni comune può escludere dalle graduatorie una quota di case da affidare a soggetti vulnerabili.

«A differenza di quanto succedeva in via delle Bonifiche, negli alloggi Acer le famiglie corrispondono un canone mensile. Senza corsie preferenziali e senza passare davanti a nessuno», precisa Nicola Lodi, assessore alla Sicurezza di Ferrara, che in consiglio comunale è detto “lo sceriffo”. «Dopo cinque anni non abbiamo criticità, abbiamo reso autonome queste persone e i problemi di criminalità sono quasi azzerati».

Ciò non toglie che sia stato proprio Lodi, a campo chiuso e famiglie trasferite, a salire su una ruspa per abbattere i container. Uno show a favore di telecamere che gli è valso una denuncia per usurpazione di funzione pubblica e violazione della normativa di sicurezza, oltre che per gestione di rifiuti non autorizzata. «In tribunale è rimasto solo un piccolo filone per quanto riguarda i rifiuti, ma il comune ha fatto tutto a regola d’arte con un appalto per la bonifica ambientale», assicura l’assessore.

«Le casette erano libere e dentro non c’era nessuno. La scena della ruspa era simbolica, per far capire che non era aria a chi avesse voluto rioccupare», conclude Lodi. Ancora di più, era un’azione dimostrativa per dare l’immagine di una giunta che tiene fede a una delle promesse della campagna elettorale. Perché si possono fare passi avanti e realizzare politiche concrete, oltre che più giuste, ma è difficile rivendicarle del tutto e dire addio alla propaganda del passato.

© Riproduzione riservata