- La persistente siccità ha costretto molti agricoltori a dover ridurre le superfici coltivate a riso e ad incrementare le colture alternative, come soia e mais.
- Nonostante il riso rischi l’inquinamento da cadmio, a causa della siccità, i prezzi continuano ad essere piuttosto alti, con conseguente crisi di altri attori della filiera come le riserie.
- Un altro anno di siccità significherebbe la chiusura di molte aziende agricole e il fallimento delle riserie. A rimetterci potrebbe essere il primato di produzione dell’Italia, leader in Europa.
Cambiare, o addirittura ridimensionare, prima che sia troppo tardi. È questa la situazione che si trovano a dover affrontare i risicoltori italiani, alle prese con una situazione idrica tale da dare già per assodato un calo della produzione del riso per il secondo anno di fila.
«Possiamo già immaginare come la quantità di prodotto sia destinata a scendere del 20 per cento quest’anno, con molti risicoltori che prevedono di passare a colture come soia e mais, anche se pure quest’ultimo ha bisogno di molta acqua» evidenzia Mauro Bianco, presidente della sezione Coldiretti di Alessandria.
Un’area, quest’ultima, storicamente tra le più vocate alla coltura risicola, insieme alle province di Vercelli, Novara e Pavia, le cui risaie coprono da sole oltre il 90 per cento delle aree di produzione.
Tipologie come il Carnaroli, l’Arborio o il Sant’Andrea rappresentano un vero e proprio tesoro nazionale: l’Italia è infatti leader in Europa nella produzione di riso, specialmente delle varietà da risotto, e non è un caso che sia riuscito a esportarlo anche in Cina, patria di questo cereale.
I dati medi di produzione sono di circa un milione di tonnellate l’anno, di cui il 60 per cento destinato all’export.
La mancanza di acqua può però costringere i risicoltori a dover rivedere i piani. Le superfici coltivate a riso sono infatti in calo da tempo: si stima che il 2023 possa far scendere gli ettari coltivati ad appena 211mila, 8mila in meno rispetto all’anno precedente.
Qualcuno teme possano scendere anche sotto la soglia psicologica dei 200mila.
Il problema dell’acqua
Quando si pensa alle risaie l’immaginario collettivo porta subito a pensare agli ambienti paludosi nei quali lavoravano le mondine, donne che si occupavano del trapianto delle piantine e della pulitura dalle erbacce. A rendere celebre questa immagine fu Riso amaro, film del 1949 ambientato proprio in una risaia e con protagonista Silvana Mangano. Un’immagine che oggi non è più così attuale. «Chi decide di piantare riso, e io per primo, sta facendo una scommessa pericolosa dal punto di vista economico. Di sicuro non potremo piantare più il riso per sommersione ma andrà fatto in asciutta, come il frumento» dice Stefano Greppi, presidente di Coldiretti Pavia e lui stesso titolare di un’azienda risicola a Rosasco, nella Lomellina. Un simile cambiamento, necessario prima ancora che voluto, può portare a prediligere alcune varietà anziché altre?
«Sicuramente il Carnaroli o l’Arborio, le tipologie da risotto, sono quelle più idonee ad una coltivazione acquatica. In generale però tutte le varietà possono soffrire la mancanza di acqua» sottolinea Greppi. E in questo senso il problema maggiore è il cadmio, metallo pesante presente nei terreni e che finisce nel riso a causa della mancanza di acqua. «Solitamente non lo assorbe ma quando è in stress idrico durante il periodo della fioritura e fino alla maturazione il riso lo assorbe in quantità oltre la norma. Queste rende il prodotto non commestibile per gli umani ed è un problema che oggi potrebbero dover affrontare in tanti» rimarca Fulco Gallarati Scotti, erede di Pietro Gallarati, che nel 1465 ottenne da Francesco Sforza le acque per irrigare le prime risaie, e titolare di un’azienda agricola di 400 ettari a Cozzo, in provincia di Pavia, dove coltiva ancora il riso.
Aiuterebbe certamente una migliore gestione della poca acqua presente, immaginando magari dei mini-invasi.
«Sarebbero utili, visto che dobbiamo imparare a migliorare la nostra gestione delle poche risorse idriche a disposizione. La nostra speranza comunque è che le piogge aiutino a far crescere gli affluenti e gli invasi naturali presenti» sottolinea Bianco. «Certamente aiuterebbero, ma se manca l’acqua c’è poco da fare. Qui abbiamo tre dighe, ma i nostri invasi sono sostanzialmente vuoti. Per risolvere il problema serve una strategia globale» sostiene Carlo Zaccaria, presidente del Consorzio di Tutela della Dop Riso di Baraggia Biellese e Vercellese.
La crisi della filiera
In un contesto del genere, caratterizzato da un’offerta quantitativamente sempre più in calo, è naturale l’aumento dei prezzi: il rischio è quello di ripetere quanto fatto lo scorso novembre, quando, a causa della scarsità di prodotto dovuta alla siccità, i prezzi di Carnaroli, Arborio e Roma hanno visto il loro prezzo più che raddoppiare rispetto al 2021. Un altro anno di siccità metterebbe a rischio gli agricoltori ma anche tutti gli altri attori della filiera, come le riserie, che lo lavorano per le aziende e aiutano a portarlo sulle nostre tavole.
«Tutte quante siamo in crisi e c’entra sicuramente la siccità, causa di una produzione inferiore e di una resa non al livello di altre annate, ma anche un aumento ingiustificato del prezzo. Così noi siamo stritolati tra le grandi aziende, che fanno stime approssimative del risone (nome del prodotto allo stato grezzo, ndr) e chiedono un determinato quantitativo di riso, e gli agricoltori. Purtroppo, anche il prossimo anno rischia di essere drammatico e molti di noi rischiano di chiudere» sottolinea Alessandro Baucero, titolare dell’omonima riseria a Vercelli. Visto un calo della produzione ormai diventato ordinario e con un’offerta venduta a prezzi sempre più alti, «la filiera rischia di saltare: non riusciamo a stare dietro all’aumento delle spese del risone e del costo dell’energia. Tali rincari rischiano di pesare sulle spalle degli italiani, che possono poi orientarsi su altri prodotti: non è un caso, infatti, che la grande distribuzione abbia perso il 20/25 per cento delle vendite del riso» continua Baucero.
Le conseguenze
Se l’offerta interna è sempre più scarsa e vede il suo prezzo salire sempre di più, il rischio è che ci si rivolga altrove, preferendo importare i risi della Cambogia o del Myanmar per soddisfare la domanda interna, sebbene non abbia la stessa qualità e gli stessi controlli sanitari. «Il timore degli agricoltori sicuramente c’è, nonostante la situazione sia grave dappertutto. Un po’ di pioggia aiuterebbe a salvare sia questa annata che anche le imprese» evidenzia Zaccaria. Cosa succederebbe con un’altra stagione siccitosa, con una piovosità simile a quella dello scorso anno?
«Se sarà come l’anno scorso, rischiamo di perdere molti raccolti» sottolinea sempre Zaccaria. «Avevamo una produzione di 15/17 milioni di quintali ma, con la siccità, ciò che avverrà è una riduzione consistente sia delle semine che delle superfici dedicate al riso, con gli agricoltori che pianteranno soltanto i risi più redditizi» dice Gallarati Scotti. Per alcuni un’altra stagione di questo tipo porterebbe ad aggravare la crisi già esistente. «Si assisterebbe a un ulteriore peggioramento delle qualità del prodotto: con il supermercato che vende a prezzi bloccati già oggi le riserie sono costrette a mescolare i risi, inserendo percentuali di rottura più alti e similari che costano un po’ meno» sottolinea Baucero. La pioggia, perciò, è l’ultima speranza di un comparto che rischia di vivere un’altra stagione difficile e che per molti potrebbe essere quella della definitiva chiusura.
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