- Prima della pandemia l’Italia era uno degli ultimi paesi europei per ricorso al lavoro remoto e le cose non sono migliorate molto durante la pandemia.
- Timori e impreparazione hanno spinto molti imprenditori a non concedere lo smart working. «Eravamo in presenza senza una ragione se non un senso di controllo dei nostri capi», ha raccontato un lavoratore.
- Ma le cose oggi potrebbero cambiare, grazie a un movimento che sta nascendo dal basso.
Il 22 marzo 2020, durante il picco della prima ondata, il governo ha deciso la chiusura di tutte le attività economiche non essenziali. In provincia di Bologna, la Datalogic, un’azienda tecnologica specializzata nella produzione di lettori di codice a barre, ha deciso di tenere aperto uno dei suoi stabilimenti, sfruttando le ampie scappatoie previste dalla legge.
Sindacati e dipendenti hanno cercato di opporsi: in gran parte i lavoratori dell’azienda avrebbero potuto lavorare da casa, dicevano. L’azienda non ha ceduto e il 27 marzo i dipendenti della società hanno scioperato per il diritto allo smart working. Quello stesso giorno è stato registrato il record di decessi Covid-19 di tutta la pandemia: 969 morti in un giorno.
Le storie
Non è un caso unico. Non molto lontano da Datalogic ha sede BitBang, una società di informatica con 130 dipendenti. Dopo il lockdown dell’anno scorso, l’azienda ha riportato circa metà dei lavoratori in azienda e in poco tempo è scoppiato un focolaio. Sindacati e lavoratori hanno chiesto di estendere il lavoro a casa e limitare il più possibile la permanenza in azienda. Le trattative però non stanno andando bene e i sindacati minacciano di sciopero.
Domani ha raccolto decine di storie come questa: casi di smart working negato per le ragioni più svariate, spesso riassumibili nella paura di manager e titolari delle imprese che una volta lasciati a casa i loro dipendenti non lavorino “davvero”.
Non è un clima facile quello che si respira nelle aziende italiane in questo periodo. Quasi tutti i protagonisti di queste storie hanno chiesto di restare anonimi e anche i delegati sindacali hanno spesso preferito temere un profilo basso per timore delle rappresaglie.
Una storia tipica è quella di F.C. che lavora nel settore dell’informatica e della tecnologia. Sua moglie affetta da una grave patologia che la rende particolarmente a rischio se dovesse ammalarsi di Covid. Il suo datore di lavoro «è giovane brillante, ma sul Covid è quasi un negazionista. In ufficio nessuno porta la mascherina», racconta. Quando F.C. chiede di poter lavorare da casa gli concedono un paio di giorni «come favore». Gli spiegano che se è a casa non possono verificare se sta lavorando davvero e che se facessero fare smart working a lui dovrebbero concederlo anche a tutti gli altri. Le cose non cambiano nemmeno quando in azienda si scopre il primo contagiato che infetta altri quattro lavoratori. «Nell’ultimo anno e mezzo è stata una battaglia continua», dice.
G.P. racconta che il suo capo ha obbligato i dipendenti a presenziare in ufficio. Tutti usano la mascherina e rispettano le distanze di sicurezza, ma non c’è nessuna ragione per lavorare in presenza in piena pandemia: il loro è un lavoro che si fa tutto al computer. Quando i dipendenti chiedono al capo di poter lavorare da casa, la risposta è negativa. «Ci ha detto che se arrivasse qualche cliente e vedesse l’ufficio vuoto farebbe brutto – dice G.P. – Mi sono chiesto il peso che ha la salute dei dipendenti per un datore di lavoro».
T.S dice che anche la sua azienda si sta avviando verso lo sciopero per ottenere lo smart working dopo che un focolaio ha colpito una decina di dipendenti sui 60 tenuti in presenza «senza motivi particolari se non un senso di controllo dei nostri capi».
Nel settore pubblico, dove fino a poche settimane fa la legge imponeva di raggiungere una certa “quota” di dipendenti in smart working, le cose sono andate meglio, ma non sono mancati i problemi.
Nel Polo di mantenimento pesante nord di Piacenza, una struttura dell’esercito con circa 400 dipendenti civili assunti dal ministero della Difesa, i sindacati dicono che fino 60 persone avrebbero potuto svolgere il lavoro in smart working. Per farlo, però, servivano sistemi di Vpn per consentire l’accetto al sistema interno dello stabilimento dai proprio computer di casa. «Non c’è stato verso di ottenerli», racconta un delegato sindacale dell’azienda che preferisce rimanere anonimo.
Nella seconda ondata il massimo che si è raggiunto è stato 15 persone casa a turno per fare formazione. Chi è riuscito a lavorare dalla propria abitazione si è dovuto procurare da solo i programmi necessari e ha dovuto usare chiavette Usb per portare il lavoro fatto in azienda. «C’è un muro di gomma - dice il delegato - chiedono che venga fatto qualcosa, ci dicono che si attiveranno e dopo 15 mesi siamo ancora lì».
I numeri
Le esperienze dei singoli coincidono con i dati delle ricerche e dei sondaggi degli ultimi anni. L’Italia è uno dei paesi europei che ricorrono di meno al lavoro remoto. Secondo una ricerca dell’Organizzazione mondiale del lavoro, nel 2015 l’Italia era l’ultimo paese in Europa per quantità di lavoratori che usavano lo smart working.
Nel 2017, con l’approvazione della prima legge organica sul lavoro remoto, che prevede la possibilità di smart working in seguito ad un accordo tra lavoratore ed azienda, la situazione è migliorata, ma non moltissimo. Secondo un’altra ricerca basata su dati del 2019, l’Italia era ancora al terzultimo posto in Europa, con il 4 per cento degli occupati che faceva regolarmente lavoro da remoto.
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