- La guerra in Ucraina ha avuto una sola conseguenza positiva: ha posto fine alla collaborazione tra l’istituto Gamalyeva, ente di ricerca medica che dipende dal Ministero della Salute russo, e l’Istituto Spallanzani di Roma.
- Putin ha fatto di tutto perché la Russia arrivasse prima nella corsa a chi produceva per primo il vaccino contro il coronavirus. Ma ancora non si sa se il vaccino russo Sputnik funzioni e se sia sicuro, per questo le agenzie di sorveglianza mondiali non hanno ancora autorizzato il suo utilizzo.
- Eppure, l’Istituto Spallanzani di Roma da almeno un anno stava conducendo una costosa sperimentazione sul vaccino Sputnik, finanziata dall’Italia, che è stata immediatamente sospesa poche ore dopo l’inizio della guerra in Ucraina. Come mai? Per evitare brutte figure?
La guerra in Ucraina ha avuto una sola conseguenza positiva: ha posto fine alla collaborazione tra l’istituto Gamalyeva, controllato dal governo di Mosca, e l’istituto Spallanzani di Roma, che da quasi un anno stava portando avanti la sperimentazione del vaccino russo Sputnik V.
Il 25 febbraio, neanche ventiquattr’ore dopo che Putin ha deciso di invadere l’Ucraina, l’assessore alla Sanità del Lazio Alessio D’Amato ha annunciato: «Sospendiamo la cooperazione per Sputnik perché la scienza deve essere al servizio della pace e non della guerra, come ha ricordato il papa». Aspettava una scusa per chiudere in fretta una vicenda imbarazzante.
La storia del vaccino
Quando è scoppiata la pandemia da Covid-19, la Russia si è lanciata nella corsa per la produzione del vaccino contro il virus. Il presidente Vladimir Putin voleva battere sul tempo gli altri stati del mondo, e per questo ha fatto arrivare cospicui finanziamenti statali all’istituto Gamalyeva, un centro di ricerche microbiologiche povero e in disarmo, come quasi tutto il settore delle scienze mediche russe.
Gli scienziati dell’istituto hanno sviluppato in fretta un vaccino, che hanno chiamato Gam-Covid-Vac, ovvero Vaccino anti-Covid dell’Istituto Gamalyeva, volgarmente detto Sputnik V. Lo Sputnik V è un vaccino a vettore virale in due dosi: nella prima viene inoculato un adenovirus scimpanzè di tipo 26, nella seconda un adenovirus umano di tipo 5, entrambi modificati e contenenti il gene per la proteina spike del coronavirus.
Perché due adenovirus diversi? Gli scienziati russi hanno fatto una furbata: alla prima dose iniettano lo stesso adenovirus di scimpanzé usato da AstraZeneca e Johnson & Johnson, in pratica hanno copiato l’idea da quelle aziende e perciò, per evitare problemi di brevetti, hanno aggiunto una seconda dose con un adenovirus diverso. Mica male.
In breve tempo, gli scienziati russi hanno avviato la sperimentazione sull’uomo, e a settembre 2020 hanno pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet un articolo dal titolo Sicurezza e immunogenicità di un vaccino a vettore virale contro il COVID-19. E Putin ha potuto annunciare al mondo: «La Russia è arrivata prima nella corsa al vaccino contro il Covid».
Le critiche
Qualcuno, però, sente puzza di bruciato. Lo scienziato italiano Enrico Bucci e una trentina di suoi colleghi scrivono una lettera alla rivista in cui avanzano critiche serie: il vaccino era stato sperimentato su un numero troppo ridotto di individui, solo 38; inoltre, i partecipanti sembravano presentare valori identici per variabili diverse (per esempio, i volontari avevano esattamente lo stesso livello di anticorpi a 21 e a 28 giorni dal vaccino, cosa più unica che rara), e altri dati mostravano pattern stranamente simili in gruppi diversi di partecipanti. Insomma, più o meno apertamente accusano i russi di avere barato.
Gli scienziati russi rispondono: «Forniremo i dati dei singoli partecipanti su richiesta e li renderemo pubblici e condivisibili su una piattaforma online sicura». Ma non lo hanno fatto mai. Pochi mesi dopo, il 2 febbraio 2021, sempre su Lancet, gli scienziati russi pubblicano un secondo articolo dal titolo Sicurezza e immunogenicità di un vaccino a vettore virale contro il COVID-19: analisi ad interim di uno studio di fase III.
Stavolta lo studio è molto più ampio, e condotto su 22.000 adulti. Però anche in questo caso i risultati sono controversi. Gli scienziati sostengono che lo Sputnik ha un’efficacia di oltre il 90 per cento, ma non dicono quanti e quali eventi avversi si siano verificati. Si limitano a scrivere: «Poiché gli eventi avversi gravi sono stati pochi, i dati completi su questi saranno forniti in una pubblicazione successiva». Che non è arrivata mai.
L’autorizzazione che manca
Ancora una volta diversi scienziati, tra cui Enrico Bucci, rilevano che l’articolo è pieno di incongruenze ed errori. Al momento della pubblicazione, nessuna delle principali autorità di regolamentazione mondiali sui vaccini – né l’americana Fda, né l’europea Ema – ha ricevuto una richiesta di commercializzazione da parte dei russi.
L’Ema ha iniziato a esaminare la domanda per lo Sputnik solo il 4 marzo 2021, e l’autorizzazione a oggi non è ancora arrivata, evidentemente perché i dati non convincono.
Insomma, il vaccino Sputnik è avvolto dai dubbi, eppure il 13 aprile 2021 la regione Lazio approva un memorandum, firmato dall’assessore alla Sanità D’Amato, dal direttore dello Spallanzani Francesco Vaia, dal direttore dell’istituto Gamalyeva Alexander Gintsburg, e dal direttore del fondo sovrano russo Rdif Kirill Dmitriev.
In base all’accordo, gli scienziati dell’istituto Spallanzani dovranno studiare l’efficacia dello Sputnik V sulle varianti del coronavirus, e poi, dopo l’autorizzazione al commercio dell’Aifa, dovranno avviare una sperimentazione iniettando Sputnik a 600 volontari che abbiano ricevuto una prima dose di vaccino AstraZeneca.
Questo progetto è andato avanti fino al 20 gennaio scorso, giorno in cui un gruppo congiunto di scienziati dell’Istituto Spallanzani, guidati dal professor Vaia, e dell’Istituto Gamalyeva, guidati dal prof Gintsburg, ha pubblicato online un preprint, cioè un articolo non ancora approvato e vagliato da altri esperti, intitolato Mantenimento della risposta neutralizzante contro la variante Omicron in individui vaccinati con Sputnik. V.
Lo Spallanzani ha cantato vittoria, definendo i dati «estremamente incoraggianti per definire nuove strategie vaccinali in rapporto all’evoluzione delle varianti del Covid». In pratica, si sono fatti i complimenti da soli. E il presidente Putin ha commentato raggiante: «La studio comparativo congiunto Russia-Italia sui vaccini condotto all’istituto Spallanzani ha dimostrato che il vaccino russo Sputnik è il migliore di tutti nel neutralizzare Omicron». Pura propaganda, perché lo studio non dimostra affatto quel che dice Putin.
Gli scienziati italiani e russi sostengono che «due dosi di vaccino Sputnik inducono titoli di anticorpi neutralizzanti del virus contro la variante Omicron più di 2 volte superiori rispetto a due dosi di vaccino Pfizer».
Ma i dati descritti nello studio non solo non supportano quel che gli scienziati hanno scritto, ma sono privi di significato proprio per come esso è stato condotto. Gli scienziati volevano misurare come gli anticorpi circolanti indotti dai vaccini diminuiscano col tempo. Per Sputnik V, hanno preso due gruppi, comprendenti il primo 15 individui vaccinati al massimo da tre mesi, e il secondo 16 individui che hanno ricevuto la seconda dose da tre a sei mesi prima.
Per Pfizer, hanno preso 17 individui e hanno misurato i loro anticorpi nel giorno in cui hanno ricevuto la seconda dose, poi tre e sei mesi dopo. Infine, hanno confrontato i livelli di anticorpi in chi era stato vaccinato con Sputnik da tre a sei mesi prima con quelli di chi era stato vaccinato con Pfizer da sei mesi: ovviamente, i vaccinati Sputnik, molti dei quali erano vaccinati da meno di sei mesi, avevano in media livelli di anticorpi più alti di chi era vaccinato da sei mesi, perché gli anticorpi diminuiscono col tempo. Il paragone non regge, e lo capisce anche un bambino.
Poi c’è un’altra questione. Sull’articolo si legge che la ricerca è stata finanziata dal fondo sovrano russo Rdif, che detiene i diritti sul vaccino. Invece, al direttore dello Spallanzani Francesco Vaia, coautore dello studio, è scappato di bocca che lo studio è stato interamente finanziato dallo stesso Spallanzani, ovvero dall’Italia. Perché?
Molte cose non tornano in questa faccenda. Per dirne una, prima di diventare direttore del prestigioso Istituto Spallanzani, il professor Francesco Vaia aveva pubblicato solo quattro articoli scientifici minori, il più rilevante dei quali si intitola Efficacia dei dispositivi anti-risucchio nella prevenzione della contaminazione batterica delle linee d’acqua delle unità dentarie. In pratica uno studio su come evitare che i batteri presenti nella nostra bocca vengano risucchiati dal trapano del dentista contaminando poi lo sciacquetto.
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