Ai Giochi olimpici di Parigi erano andati con una missione sola, quella della vittoria. E oro è stato per Team USA, tanto per la squadra maschile che per quella femminile, con i due “grandi vecchi” LeBron James e Diana Taurasi a cementare il loro posto nella storia. James è diventato l’unico di sempre con più di una tripla doppia alle Olimpiadi, Taurasi la sola cestista in assoluto con 6 ori vinti. Ma non si è trattato della passeggiata prevista. Dopo le sconfitte del 1992 (per le donne) e del 2004 (per gli uomini), le Olimpiadi rappresentano per gli statunitensi il palcoscenico giusto da cui ribadire al mondo la propria schiacciante superiorità, a costo di tralasciare nel corso del quadriennio l’appuntamento con i Mondiali, dove pur presentandosi da favoriti non schierano tutte le stelle a disposizione. E non vincono.

Per le donne l’ottavo oro olimpico consecutivo è arrivato con una finale portata via alla Francia per un solo punto, 67-66. Il tiro dell’avversaria Gabby Williams sulla sirena, assegnato da due punti e non da tre, non è valso il pareggio che avrebbe portato la gara all’overtime. Per gli uomini il grande spavento è arrivato nelle semifinali, con la rimonta compiuta solo negli ultimi minuti contro la Serbia, battuta di 4 punti per 95-91. Ma la finale è stata in bilico, mai chiusa, fino a un sofferto finale anche in questo caso contro la Francia.

A Barcellona

Che cosa ci dice allora l’Olimpiade sullo stato di salute della pallacanestro e del basket americano? Rafforza la convinzione che, soprattutto fra gli uomini, la distanza con il resto del mondo si stia assottigliando sempre più. A Barcellona, nel 1992, con il Dream Team originale, quella che è considerata la miglior squadra mai messa in piedi dagli Stati Uniti nella prima occasione in cui poteva contare sui giocatori professionisti della NBA, la squadra con il terzetto Michael Jordan/Magic Johnson/Larry Bird in copertina, lo scarto medio affibbiato agli avversari fu di 43,8 punti. A Parigi è sceso a 19, con una brillante prima fase ma molta sofferenza nelle gare decisive per le medaglie.

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Eppure la selezione messa in piedi da Grant Hill, responsabile del programma di Team USA, è stata la migliore possibile almeno per dieci dodicesimi dei componenti, con qualche discussione sui giocatori marginali. Sono stati convocati tre fra i migliori quindici giocatori della storia. Il valore complessivo per la prima volta è stato paragonabile a quello del 1992, con LeBron James, Stephen Curry e Kevin Durant al comando. Ma l’epilogo lascia l’interrogativo sul futuro aperto, anzi apertissimo: pur con tutti i migliori giocatori a disposizione, gli Stati Uniti saranno raggiunti al vertice della pallacanestro mondiale (se non detronizzati)?

Le prospettive

Non si vede nella prossima generazione di giocatori un altro terzetto così eccellente, un terzetto che ha tolto più volte le castagne dal fuoco risultando decisivo per il successo statunitense: certo, ci sono campioni pronti a raccoglierne il testimone come Edwards, Holmgren, Maxey, Banchero, ma l’utilizzo minimo di Tatum (un altro dei principali candidati a succedere ai tre come leader del gruppo), l’uso da "semplice" specialista di Booker a Parigi e i continui problemi fuori dal campo di Ja Morant e Zion Williamson non lasciano alcuna certezza sulla costruzione di gruppi ugualmente corazzati per i prossimi anni. L’egemonia è a rischio. La globalizzazione cestistica sembra ormai inarrestabile.

Nelle ultime sei stagioni, il titolo di mvp del campionato NBA è stato assegnato a un giocatori nato fuori dai confini degli States: due volte il greco Giannis Antetokounmpo, tre volte il serbo Nikola Jokić, una volta il camerunense Joel Embiid, e alla fine gli americani lo ganno naturalizzato, approfittando della mancata qualificazione ai Giochi della nazionale africana. I leader extra-USA del campionato non finiti qui. Il nuovo che avanza è rappresentato dallo sloveno Luka Dončić, dal canadese Shai Gilgeous-Alexander fino ad arrivare alla next big thing, il francese delle meraviglie Victor Wembanyama.

C’è sempre stato un interrogativo nell’aria intorno allo storico Team USA 1992: cosa sarebbe successo se avesse dovuto sfidare una selezione della ex Jugoslavia, all’epoca da poco disgregata: come se la sarebbero cavata di fronte a Petrović e Divac, Kukoc e Djordjevic, Radja e Danilović. Oltre trent’anni dopo, con tanta acqua passata sotto i ponti nel frattempo, potremmo essere vicini più che mai a quello scenario, tanto impensabile nello scorso secolo quanto prossimo alla realtà attuale.

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