Chi deve gestire le spiagge italiana e quanto deve pagare per farlo? È una questione aperta da oltre un decennio, che ha prodotto leggi, sentenze e direttive in contrasto tra loro: presto il Consiglio di stato dovrebbe aggiungere un nuovo (forse) definitivo capitolo
La questione di chi deve gestire le spiagge italiane e di quanto bisogna pagare allo stato per sfruttare un bene di proprietà pubblica è destinata ad arricchirsi di un nuovo capitolo. Il Consiglio di stato dovrà deciderà oggi se sono valide le leggi dello stato italiano che rinnovano in modo automatico le concessioni balneari, consentendo ai titolari degli stabilimenti di mantenere le attuali concessioni a basso prezzo e senza rischiare competizione.
Dopo una prima riunione avvenuta oggi, l’adunanza plenaria ha deciso di prendersi ancora qualche settimana per decidere. Si tratta di una questione complicata che va avanti da anni, tra direttive europee, leggi nazionali e sentenze di tribunale, spesso in contrasto le une con le altre.
Le basi
Le coste italiane fanno parte del demanio pubblico e sono quindi di proprietà di tutti. Anche all’interno degli stabilimenti balneari, infatti, la legge stabilisce il libero accesso alla battigia, cioè la parte di spiaggia bagnata dal mare. Insomma, la costa italiana è pubblica e nessuno può impedirne l’accesso.
La spiaggia retrostante, però, può essere data in concessione. Significa che lo spazio può essere affittato da un privato, che può costruire strutture fisse o mobili e chiedere un prezzo per consentirne l’utilizzo.
In tutto, circa la metà del coste sabbiose italiane sono occupate da stabilimenti balneari (il 42 per cento secondo Legambiente), si tratta di una delle percentuali più alte al mondo.
Secondo gli ultimi dati disponibili, che risalgono al 2019, in Italia ci sono 29.693 concessioni marittime ad uso turistico-ricreativo e 6.832 stabilimenti balneari. Molte di queste concessioni e di questi stabilimenti sono nelle mani della stessa famiglia da decenni e sono state sempre rinnovate in modo quasi automatico.
Il risultato è che lo stato incassa pochissimo da queste concessioni. Appena 115 milioni di euro nel 2019, una media di 3.800 euro l’anno per concessione.
Per fare un esempio concreto, il Twiga Beach Club di Marina di Pietrasanta, di proprietà dell’imprenditore Flavio Briatore, sorge su una concessione di 5mila metri quadrati. È considerato lo stabilimento più caro d’Italia, con un prezzo medio per posto letto che si aggira tra i 300 e 1.000 euro al giorno.
Per sfruttare questa spiaggia, Briatore paga allo stato un canone annuo di 17.169 euro, cioè 48 euro al giorno: meno di quanto costa un ombrellone nella stessa spiaggia. La situazione è così scandalosa che lo stesso Briatore ha detto che la cifra giusta sarebbe «almeno 100mila euro l’anno».
Le leggi
I gestori di stabilimenti balneari come Briatore sono la minoranza. La maggior parte vuole che l’attuale sistema continui, che i costi di concessione rimangano bassi e, soprattutto, che le concessioni non vengano messe a gara oppure che le gare vengano indette con procedimenti che garantiscono vantaggi agli attuali detentori.
Per ottenere questi risultati, i balneari hanno trovato diversi alleati nella politica, soprattutto nella Lega e nel resto del centrodestra, ma in passato hanno ottenuto anche l’appoggio del Movimento 5 stelle e la non ostilità del centrosinistra.
La ragione per cui i balneari hanno così bisogno di alleati politici è che una direttiva europea imporrebbe di cambiare questo stato di cose. Si tratta della famigerata direttiva Bolkestein, che non parla direttamente di spiagge, ma che impone di mettere a gara con pubblicità internazionale tutte le concessioni, e quindi anche quelle marittime.
Da quando nel 2010 la direttiva Bolkestein è stata inserita nell’ordinamento italiano, si è scatenata una lunghissima battaglia a colpi di leggi, decreti e sentenze del tribunale, con i balneari e i loro sostenitori che vogliono preservare l’attuale situazione da un lato e chi vorrebbe imporre un qualche tipo di rispetto della direttiva dall’altro.
Chi dice no
Chi si oppone ai balneari sono spesso i sindaci dei comuni marittimi o lacustri, magari insoddisfatti del servizio offerto dai concessionari locali e in cerca di nuovi investitori.
Nel 2013, ad esempio, due consorzi di comuni, uno in Lombardia, sulle rive del Lago di Garda, l’altro in Sardegna, decisero di mettere a gare alcune concessione perché non erano soddisfatti del servizio offerto dai detentori dell’epoca. I balneari fecero causa, perché ritenevano di essere protetti dalle leggi italiane allora in vigore, che di fatto neutralizzavano la Bolkestain, mentre i comuni sostenevano che la direttiva avesse la precedenza sulle leggi nazionali.
L’ultimo in ordine di tempo ad aver portato avanti a questa battaglia è Carlo Salvemini, dal 2019 sindaco di centrosinistra di Lecce, comune con 25 chilometri di costa e 23 stabilimenti balneari. Del piano di rinnovare le concessioni, chiedendo ai potenziali gestori tariffe in linea coi guadagni, nuovi investimenti e impegni su tutela dell’ambiente, Salvemini aveva fatto una delle sue principali promesse in campagna elettorale.
Dopo una netta vittoria al primo turno, «mi sono sentito legittimato da una dichiarazione chiara, evidentemente favorevole, della cittadinanza», ha detto Salvemini a Domani. Ma una volta eletto si è dovuto scontrare con l’ultima legge votata dal Parlamento in difesa dei balneari.
Nel 2018, infatti, il governo Lega-Movimento 5 stelle ha approvato la legge legge 145, che stabilisce la proroga automatica di tutte le concessioni in essere fino al 2033, togliendo così ogni possibilità a Salvemini e a tutti gli altri sindaci di ridiscutere le condizioni con cui le spiagge sono affidate ai balneari.
Il Consiglio di stato
L’ultimo capitolo di questa storia, ma ultimo solo in ordine di tempo, è almeno in parte iniziato proprio grazie a Salvemini. È stato lui, la scorsa estate, a chiedere al Consiglio di stato, il supremo tribunale amministrativo, di esprimersi sulla questione tramite una “adunanza plenaria”, una procedura utilizzata per questioni che rischiano di generare contrasti giurisprudenziali.
Il problema centrale è che esiste un conflitto evidente tra la legge italiana che stabilisce la proroga automatica delle concessione fino al 2033 e le direttive europee, come la Bolkestein, le sentenze dell’Autorità garante per la concorrenza e gli orientamenti giurisprudenziali espressi dal Consiglio di stato.
Da ormai un decennio, parlamento e governi non sono stati in grado di sanare questo conflitto, limitandosi a prorogare le concessione per non aver troppi problemi con i balneari. Nel frattempo, la Commissione europea ha mandato una lettera di messa in mora all’Italia per il mancato rispetto della Bolkestein che potrebbe presto tramutarsi in multe da centinaia di milioni di euro.
L’adunanza plenaria del Consiglio di stato avrà il compito di decidere se sindaci e funzionari comunali sono tenuti al rispetto delle direttive europee e possono ignorare le leggi italiane che sono con esse in aperto contrasto, oppure se, come hanno stabilito una dozzina di sentenze di tribunali amministrativi, sindaci e funzionari comunali devono semplicemente adeguarsi alla legge italiana.
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