- Accolta favorevolmente nel resto del paese, la proposta del presidente federale Gravina di intitolare lo stadio Olimpico a Paolo Rossi è stata bocciata dalle tifoserie di Lazio e Roma.
- Esclusa la tifoseria vicentina, nessuna fra quelle che hanno avuto Paolo Rossi in squadra lo identificherebbe come un calciatore caratterizzante l’identità locale al punto da intitolargli l’impianto di gioco.
- Fin qui gli è stato intitolato lo stadio di Bucine, la cittadina in cui viveva prima di morire. Anche a Prato, sua città natale, indugiano a cambiare il nome del Lungobisenzio.
Anche il calcio ha la sua sindrome nimby, anche se forse sarebbe più corretto chiamarla sindrome nimp, not in my pitch, non sul mio campo di calcio.
A esserne colpito, nell’occasione, è stato il tifo romano. Che al di là della rivalità tra romanisti e laziali, stavolta si muove compatto. Certo, qualsiasi altra tifoseria si sarebbe probabilmente comportata allo stesso modo di fronte alla prospettiva di vedere il proprio stadio intitolato a un personaggio che nulla c’entra con Roma e con le squadre della capitale. Poco importa che quel personaggi si chiami Paolo Rossi, icona mondiale oltreché eroe nazionale. Il problema in fondo sta tutto qui: mondiale, nazionale, mica romano. E lo stadio rappresenta l’identità di una città, non dell'intera nazione.
Lo ha capito in ritardo il presidente della Figc, Gabriele Gravina. Che dal canto suo aveva agito con le migliori intenzioni. L’idea di intitolare a Paolo Rossi lo stadio Olimpico, annunciata nei giorni scorsi, gli era parsa un’iniziativa doverosa e magari anche capace di raccogliere largo consenso. Forse avrebbe fatto meglio a meditarla un po’ di più.
E altrettanto opportuno sarebbe stato che a dare l’endorsement all’iniziativa non fossero stati altri due protagonisti della vittoria mondiale di Spagna 1982 come Marco Tardelli e Gabriele Oriali, vecchie glorie non romane.
Una strana situazione. Tutti parlano di come dovrebbe essere chiamato lo stadio dei romani (e partono pure le petizioni online per sostenere l’iniziativa), nessuno di loro chiede ai romani cosa ne pensino. Via social e via etere la reazione del tifo capitolino è stata pressoché unanime: con tutto il rispetto per Paolo Rossi, gli si intitoli un altro stadio in altra città. E se proprio l’Olimpico deve cambiare nome, lo si faccia con riferimento a una gloria del calcio romano nella quale possano riconoscersi sia la tifoseria romanista che quella laziale.
No local
In realtà la questione della “romanità” dell’Olimpico è soltanto metà del problema. L’altra metà riguarda proprio Paolo Rossi e il suo radicamento come eroe calcistico. Siamo talmente abituati a venerarlo da non esserci mai posti la questione della sua identificabilità territoriale fino a che essa non si è manifestata.
Perché se è vero che come idolo calcistico Paolo Rossi appartiene a tutti gli italiani è altrettanto vero che, con l'eccezione della tifoseria vicentina, si stenterebbe a individuarne una che lo possa adottare come eroe calcistico locale al punto da sponsorizzare l’idea di intitolargli uno stadio.
Anche a Vicenza l’operazione sarebbe quantomeno complicata, poiché lo stadio locale porta il nome di un altro personaggio mitico come Romeo Menti, vicentino di nascita e di militanza calcistica nella prima fase della carriera, poi morto da calciatore del Grande Torino nel disastro aereo di Superga.
Si può ipotizzare di sostituire il suo nome con quello di Pablito? Proprio no. Infatti nei mesi scorsi a Paolo Rossi è stato intitolato il piazzale dello stadio vicentino, senza che mai sia corsa l’ipotesi di cambiare denominazione all’impianto.
E se escludiamo Vicenza, non restano molte alternative. Le altre militanze di club non sono state per Rossi così caratterizzanti, quanto a rapporto con le tifoserie locali. Non abbastanza juventino (certo non quanto un Giampiero Boniperti o un Gaetano Scirea, giusto per dare la dimensione), protagonista di esperienze fugaci a Perugia, Milano sponda rossonera e Verona, Pablito mostra una caratteristica “no local” di cui soltanto adesso ci si rende conto. Appartiene a tutti ma, in fondo, a nessuna tifoseria.
Per il momento gli è stato intitolato lo stadio di Bucine, la cittadina in provincia di Arezzo in cui risiedeva prima di morire.
Si era fatta largo anche l’idea di intitolargli il “Lungobisenzio” di Prato, la sua città natale. Ma, stando alle notizie più recenti, per il momento la cosa non si realizzerà.
Detto ciò, per favore, si lasci da parte la tentazione di fare di questo episodio l’oggetto di un dibattito sulla (carente) cultura sportiva del calcio italiano e del suo popolo.
Perché non crediamo proprio che in altri si sarebbero registrate reazioni tanto diverse da quelle mostrate (fra l’altro in modo composto) dalle tifoserie romane. L’identificazione locale è un pezzo essenziale del calcio come fenomeno sociale e lo stadio è luogo principale del processo d’identificazione. Il giorno che dovesse smettere di esserlo significherà che sarà stata compiuta una mutazione genetica.
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