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Michele Albanese vive sotto protezione da sette anni: la ’ndrangheta progettava un attentato contro di lui.
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La sua vita non ci racconta solo una storia individuale, ma ci parla di tanto altro. Di cos’è ancora oggi il sud, dell’esistenza di quei piccoli “stati” che si contrappongono allo stato vero. Si chiamano ‘ndrangheta, camorra, Cosa nostra.
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Ma il dramma non sono solo le minacce. Le querele temerarie rischiano di spazzare via la stampa libera al sud.
«Sette anni. Ottantaquattro mesi. Per tutto questo tempo non sono andato al cinema, a teatro, ad un concerto. Vivo in un posto da veri privilegiati dove ho a disposizione due mari, il Tirreno e lo Jonio. Posso scegliere tra spiagge bianche e solitarie e la scogliera. Una benedizione del Padreterno. Ma neppure quest’anno mi stenderò a prendere il sole e a fare tuffi…». Potremmo fermarci qui, perché la storia di una vita così è già molto triste, invece andiamo avanti nel racconto, perché la vita di Michele Albanese non ci racconta solo una storia individuale, ma ci parla di tanto altro. Di cos’è ancora oggi il sud, cosa sa essere questo paradiso che dicono abitato da diavoli, con le sue violenze, l’esistenza di quei piccoli “stati” che si contrappongono allo stato vero.
Si chiamano ‘ndrangheta, camorra, Cosa nostra, dominano pezzi di territorio, stabiliscono (proprio come piccoli o grandi governi locali) il rispetto di proprie leggi e regole. Spesso si intrecciano con pezzi della politica e dello stato vero, quello con lo stemma della Repubblica italiana. E in quel momento diventano potentissimi. Potere vero. E come tutti i poteri degni di questo nome, non sopportano di essere osservati, analizzati, raccontati. Insomma, dove comandano loro i giornalisti si devono adeguare. Abbassare la testa. Girare gli occhi da un’altra parte. Far finta di non vedere. Che è meglio.
Cronista locale
Michele Albanese, 60 anni, sposato, due figlie, la testa non l’ha mai girata dalla parte più comoda e tranquilla della realtà. È un giornalista, cronista locale, e racconta i fatti della sua terra: la Calabria. «Quel giorno di sette anni fa non potrò mai dimenticarlo. Era il 16 luglio del 2014. Giornata di fuoco, e non solo per il caldo torrido. Avevano ammazzato un mafioso di terza fila. Di cognome faceva Alvaro (uno dei casati più importanti della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, ndr), ma era un personaggio minore. Ero lì per Il Quotidiano del Sud, il giornale dove scrivo. Armato di taccuino e pazienza, aspettavo i rilievi della scientifica. Insomma, le solte cose da cronista qui da noi. All’improvviso mi arriva una telefonata…». Michele si racconta, perché da quel giorno cambia la vita sua e quella dei suoi familiari.
«…Era un commissario di polizia, il capo della “catturandi”, la sezione più delicata, quella che si occupa della caccia ai latitanti. Ci salutiamo brevemente, poi il dottore mi dice con tono secco: devi venire in Questura, il capo della Mobile ti vuole parlare. Rispondo che sono impegnato, c’è stato un omicidio e devo scrivere un pezzo. La risposta è un chi se ne fotte. Vieni subito. Ovviamente in quei momenti pensi a un articolo che hai scritto e che forse non è stato di gradimento del funzionario. Qui da noi il cazziatone da parte di magistrati e investigatori è sempre in agguato. Non è una vita facile quella del cronista di provincia. Comunque lascio tutto e vado in Questura. Piano e uffici nobili. Trovo il capo della Mobile e una brava magistrata, la dottoressa Alessandra Cerreti. Chiedo spiegazioni. Che arrivano, con la forza della doccia gelata».
L’aria condizionata a palla dell’ufficio porta refrigerio a tutti, i due funzionari e la giovane pm, a sudare è solo Michele. Parla la magistrata: «Dottore, durante una attività di intercettazione abbiamo sentito due tizi che parlavano di lei. Stiamo parlando di due pezzi da novanta di una famiglia potente». La dottoressa Cerreti fa il nome e Michele rabbrividisce. «Parlavano dei suoi articoli, di come lei descrive la cosca e racconta il potere dei boss. I toni erano duri. Dopo le consuete offese…». Michele interrompe la magistrata, cerca di alleggerire il clima. «Sì, lo so, figlio di qua, figlio di là, cornuto…». La pm lo interrompe e prosegue. «Albanese, questi parlavano di bombe da piazzare sotto la sua macchina, progettavano un attentato. Stiamo parlando di una cosa seria, questi hanno a disposizione latitanti che non hanno nulla da perdere». Ancora una volta, Michele tenta di minimizzare.
«Dottoressa, la ringrazio e ringrazio tutti per l’attenzione, ma quelli che avete raccolto possono essere gli sfoghi di qualche uomo di panza, la ‘ndrangheta non ha mai ucciso un giornalista, i boss sanno che non gli conviene, capiscono bene che un omicidio del genere attirerebbe l’attenzione dell’opinione pubblica. Televisioni, giornali, manifestazioni, appelli, troppi fari accesi. La ‘ndrangheta non li sopporta, ama l’oscurità…».
Nessun giornalista ucciso
Ed è vero, i Tribunali speciali della Santa (queto è il nome dell’organizzazione dagli anni Novanta del secolo scorso, ndr) non hanno mai sentenziato l’uccisione di un giornalista. La Calabria non è la Sicilia, dove l’elenco dei cronisti uccisi è lunghissimo e senza distinzione di “testata”. Certo, non mancano le auto bruciate, i colpi di pistola sparati sul portone di casa, le lettere minatorie.
Tutte “attenzioni” che, ancora oggi, i boss riservano ai cronisti locali. Ma uccidere mai. Quando è stato necessario (tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso), la ‘ndrangheta ha ucciso militanti politici, con particolare attenzione ad attivisti e dirigenti del Partito comunista italiano. Ciccio Vinci, 18 anni, ucciso la sera del 10 dicembre 1976. La sua colpa: aver parlato in pubblico contro le cosche di Cittanova, Rocco Gatto, mugnaio, ucciso il 12 marzo del 1977. Peppe Valarioti, freddato a colpi di lupara l’11 giugno del 1980…I loro nomi sono spesso dimenticati. In Calabria non esiste un Pantheon delle vittime di mafia.
La ‘ndrangheta ha eliminato un magistrato, Antonino Scopelliti, ma per fare un favore a Cosa nostra e ai corleonesi, l’ultimo omicidio politico è quello che ha visto come vittima Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale, ucciso nel 2005 in pieno giorno a un seggio per le elezioni primarie dell’Ulivo di Prodi. Ma giornalisti mai.
Michele Albanese fa un rapido riepilogo storico-sociologico per dimostrare come la ‘ndrangheta non uccide mai a caso, ma solo per “utilità”. Non convince nessuno dei presenti. Il funzionario di polizia lo accompagna in Prefettura, dove è in corso la riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. Hanno deciso: da quel giorno (16 luglio 2014) Michele sarà un uomo sotto scorta. La sua vita sarà blindata. Non potrà mai più uscire da solo con la sua auto, andare dove gli pare.
«Fare il mio lavoro. Tu pensa alle mie fonti, persone che mi parlavano, mi davano notizie. Ma chi vuoi che si avvicini più ad un cronista seguito da due poliziotti di scorta? Ovviamente non finirò mai di ringraziare questi uomini che rischiano la loro vita per tutelare la mia. Per questa ragione, per il rispetto che devo allo stato e a queste persone, da sette anni vivo un mio personale e anticipato lockdown. Esco solo per motivi di lavoro. Ma voi mi immaginate su una spiaggia con due agenti?». Immaginiamo la scena e ridiamo di gusto.
Querele temerarie
«Vedi, qui al sud, le intimidazioni non sono solo le minacce. La querela temeraria, la richiesta di danni abnorme è all’ordine del giorno. Pensa ai precari di un quotidiano, di un sito, una tv privata, che si vedono arrivare una richiesta da centinaia di migliaia di euro. A me è capitato: un noto avvocato, oggi esponente di rilievo di un partito politico, mi chiedeva 500mila euro. Quando capita e non hai un grosso editore alle spalle pensi alla tua casa, alla famiglia, a quello che può succedere. E spesso decidi che non ne vale più la pena. Che è meglio andar via».
Michele è anche consigliere nazionale della Fnsi, il sindacato dei giornalisti. «La verità è che siamo deboli, su 175mila iscritti all’ordine dei giornalisti, quelli che aderiscono al sindacato sono appena 6mila. In queste condizioni come la vinciamo la battaglia per una legge contro le querele temerarie? Il sindacato ha poca forza, spesso rappresenta i supergarantiti, ma lo sanno come si lavora al sud? Chi sono gli editori, quali e quanti ricatti si subiscono, i cronisti pagati 5 euro a pezzo? Se piccoli quotidiani, blog e siti del sud soccombono alle querele temerarie, muore un pezzo di libertà. Calabria, Campania, Sicilia, rischiano di piombare nell’oscurità, o di essere raccontate solo da chi ha mezzi e potere. La verità è che qui ci vorrebbe una giornata di sciopero nazionale, un blocco totale dell’informazione per un giorno. Per difendere il diritto di tutti ad una informazione libera e non intimidita».
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