Per Gino Strada l’Afghanistan è stato una parte importante del suo impegno umanitario. Ma non sono mancate le polemiche con i governi, anche con i due presidenti del Consiglio: nel 2001 con l’ex Cavaliere, nel 2007 con il leader del centrosinistra a cui diede del «Ponzio Pilato»
Per Gino Strada, scomparso il 13 agosto, l’Afghanistan è stato una parte importante del suo impegno umanitario con Emergency. Ci ha trascorso sette anni della sua vita, aprendo ospedali – il primo nel 1999 – portando sollievo alle vittime del conflitto tra talebane e forze governative prima, e a quelle della guerra voluta dagli Stati Uniti e i paesi aderenti alla Nato, tra cui anche l’Italia.
Un impegno fatto di passione e sacrificio, ma anche di polemiche con i primi ministri che hanno voluto o hanno dovuto gestire l’impegno italiano nel paese centro-asiatico: Silvio Berlusconi e Romano Prodi.
«Un medico dalle idee confuse»
7 novembre 2001, Camera e Senato in seduta comune stanno per votare l’intervento militare italiano in Afghanistan. Un contingente del nostro esercito sarebbe stato mandato, in caso di esito favorevole, al fianco di quello statunitense, partito un mese prima, a poca distanza dall’attentato dell’11 settembre contro le Torri gemelle di New York. L’Afghanistan è la sede di Al-qaeda, lì è presente Bin Laden, il leader dei terroristi che hanno portato il loro attacco nel cuore dell’Occidente.
Gino Strada è in Afghanistan dal 1998, un anno dopo apre il suo primo progetto, un Centro chirurgico per vittime di guerra ad Anabah, nella Valle del Panshir. Da lì lancia il suo allarme contro la guerra inutile che ci si accinge a combattere.
All’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, la cosa non va giù già da qualche settimana. Il 28 settembre, in Senato, definisce Strada – senza mai nominarlo – «Un medico integerrimo, ma dalle confuse idee, ha dichiarato che non saprebbe scegliere tra l' Afghanistan e gli Stati Uniti».
«Noi tra la grande democrazia statunitense ed una teocrazia violenta che costringe le donne al silenzio e alla segregrazione, noi abbiamo già scelto e definitivamente. Tutto ciò non significa che non si condividano sentimenti di pena profonda per il destino del popolo afgano», conclude l’allora presidente del Consiglio.
La risposta a Berlusconi arriva prima per bocca di Teresa Strada, moglie di Gino, che con lui ha fondato Emergency, poi con un articolo sul sito dell’associazione.
«Gli afghani hanno paura, Gino mi ha detto che la popolazione è molto spaventata, si chiede perche' di questa nuova possibile guerra dopo 22 anni di conflitti. Si chiede perché dovrebbero arrivare anche gli americani. Noi siamo dalla parte delle migliaia di vittime negli Stati Uniti, così come siamo dalla parte delle eventuali vittime civili in Afghanistan dove 150 persone lavorano nel nostro ospedale nel nord», afferma Teresa Strada.
Sul sito di Emergency, le parole e i concetti sono simili: «Non abbiamo ancora finito di piangere né di seppellire le vittime di New York e Washington, per molti di noi è persino difficile credere che tutto ciò sia davvero accaduto, e già si stanno preparando nuovi massacri. Le vittime, tutte le vittime, chiedono giustizia: è l'unico risarcimento possibile, è l'unica forma di rispetto. Non crediamo nella vendetta, nell'esercito della violenza, nella rappresaglia, perché crediamo nell'uomo e nei diritti umani».
La risposta a Berlusconi, per bocca dello stesso Strada, arriva dopo qualche giorno. È più stringata, ma il senso è quello già espresso per bocca della moglie e nel comunicato di Emergency: «Non mi sento americano più di quanto non mi sento afghano».
Nonostante la battaglia di Gino Strada e di tanti esponenti della società civile e del mondo della cultura, il 7 novembre 2001 il parlamento dice comunque sì alla guerra, con il sostegno del 92 per cento dei presenti al voto: solo Rifondazione comunista di Fausto Bertinotti si opporrà.
Tre giorni dopo, Strada e altri quattro medici lasciano Anabah per Kabul. «Un viaggio difficile», hanno raccontato poi in una breve telefonata fatta alla sede di Milano, «sotto un bombardamento ininterrotto e con una gomma bucata, cambiata a una velocità da Formula Uno. Ora siamo in ospedale, tutto è bene, è in perfette condizioni».
Il rapporto con l’Afghanistan e con il suo popolo è stretto e profondo. E si è riacceso in questi giorni, con l’offensiva dei talebani che stanno riprendendo il controllo del paese.
Lo testimonia il suo ultimo articolo, pubblicato questa mattina su La Stampa, poche ore prima della sua morte. Il pensiero è sempre per le persone, uomini, donne e bambini, vittime della violenza: «Ci sono delle persone che in quel Paese distrutto cercano ancora di tutelare i diritti essenziali. Ad esempio, gli ospedali e lo staff di Emergency - pieni di feriti - continuano a lavorare in mezzo ai combattimenti, correndo anche dei rischi per la propria incolumità: non posso scrivere di Afghanistan senza pensare prima di tutto a loro e agli afghani che stanno soffrendo in questo momento, veri “eroi di guerra”».
Il rapimento Mastrogiacomo
Il 5 marzo del 2007, sei anni dopo l’inizio della guerra in Afghanistan, il giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo viene rapito dai talebani insieme al suo autista e al suo interprete. Il sequestro dura 15 giorni, con i miliziani islamici che – dopo aver chiesto il ritiro del contingente italiano dal paese – accettano il riscatto proposto dal governo italiano.
Gino Strada ed Emergency lavorano incessantemente per la liberazione dell’inviato italiano. Un ruolo fondamentale, riconosciuto anche dalle istituzioni: «Un particolare riconoscimento all'impegno profuso dall'organizzazione umanitaria Emergency e al suo presidente Gino Strada per il ruolo svolto per favorire la positiva conclusione della vicenda», dichiara il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Massimo D’Alema.
In Italia però fioccano le polemiche, con richieste di impeachment per Prodi, non solo per la trattativa con i rapitori. Dopo la liberazione del giornalista, in Afghanistan viene arrestato dai servizi di sicurezza del paese centroasiatico Rahmatullah Hanefi, uno dei dirigenti di Emergency sul posto. L’accusa è di aver favorito i talebani, aiutandoli nel rapimento.
Gino Strada alza la voce: «Il governo italiano dovrebbe vergognarsi di non aver fatto una dichiarazione un minuto dopo questa infamia (l'accusa ad Hanefi di essere complice del rapimento del giornalista italiano, ndr) portata avanti da quell'altro governo di tagliagole (l’esecutivo di Ahmed Karzai, allora primo ministro afghano), di agenti stranieri, che noi siamo lì a sostenere con un milione e mezzo di euro al giorno, solo per pagare i militari».
Le sue parole sono molto dure: «L'arresto di Rahmatullah Hanefi è un'infamia. La responsabilità ricade 'sostanzialmente su due signori: Prodi e Karzai che ora non 'possono chiamarsi fuori in una logica da Ponzio Pilato».
Hanefi aveva svolto un ruolo a sostegno della liberazione anche di un altro italiano, il fotoreporter Gabriele Torsello, rapito un anno prima di Mastrogiacomo sempre dai talebani: il dirigente di Emergency aveva portato il riscatto ai rapitori, per conto dei servizi segreti italiani.
Prodi, che in quel frangente doveva difendersi anche dagli attacchi politici di Berlusconi e delle opposizioni, taglia corto, evitando lo scontro con Strada: «Abbiamo fatto sempre e solo tutto il nostro dovere», dice del ruolo del suo governo nella vicenda dell’arresto dell’uomo di Emergency.
Hanefi, dopo le proteste di Strada e dei volontari al lavoro in Afghanistan – con tanto di partenza dal paese per ritorsione contro le accuse di favoreggiamento dei talebani – verrà liberato dopo oltre due mesi dall’arresto, a metà giugno.
Emergency poi tornerà in Afghanistan, per rimanerci: a oggi sono oltre 7 milioni e mezzo le persone aiutate.
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