- La mattina del 2 agosto 1980, dunque, Paolo Bellini era alla stazione. Ed era lì per commettere una strage, la più grave della storia d’Italia, con 85 morti e oltre 200 feriti. Bellini colpevole, in concorso con i già condannati Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini (quest’ultimo solo in primo grado, sentenza di tre anni fa): questo ha ritenuto la Corte d’assise di Bologna, attraverso la sentenza emessa mercoledì.
- Una camera di consiglio di appena tre ore, dopo un dibattimento durato quasi un anno esatto (la prima udienza si era tenuta il 16 aprile 2021) e per ben 76 udienze: già questo è un dato che la dice lunga su quanto la Corte (i togati Francesco Maria Caruso, presidente, e Massimiliano Cenni, più sei giudici popolari) non abbia avuto dubbi.
- «Questo è solo l’inizio», ha commentato Sonia Zanotti: bolzanina, da sempre attiva nel coltivare la memoria della strage (fa parte del consiglio direttivo dell’Associazione tra i familiari delle vittime), quella mattina di agosto aveva 11 anni, era seduta proprio nella sala d’aspetto e sopravvisse miracolosamente dopo un calvario di decine di operazioni chirurgiche. Si riferiva ai prossimi passaggi in appello e Cassazione, ma il dispositivo della sentenza consente di prevedere anche ulteriori sviluppi.
La mattina del 2 agosto 1980, dunque, Paolo Bellini era alla stazione. Ed era lì per commettere una strage, la più grave della storia d’Italia, con 85 morti e oltre 200 feriti. Bellini colpevole, in concorso con i già condannati Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini (quest’ultimo solo in primo grado, sentenza di tre anni fa): questo ha ritenuto la Corte d’assise di Bologna, attraverso la sentenza emessa mercoledì.
Entro 90 giorni (prorogabili però anche a 180) si conosceranno le motivazioni di un verdetto ampiamente prevedibile, vista l’imponenza degli indizi accumulatisi contro l’ex esponente di Avanguardia nazionale già assassino nel 1975 di Alceste Campanile, giovane di Reggio Emilia (quindi suo concittadino) militante di Lotta continua. Ma nel passato di Bellini c’è molto altro: a partire da rapporti con strutture istituzionali che lo hanno portato anche ad essere coinvolto nella complicata partita Stato-mafia di trent’anni fa. Ed è stato pure un sicario per conto della ‘ndrangheta.
Indizi plurimi, univoci e convergenti, quelli emersi contro Bellini, ai quali si è aggiunta la decisiva testimonianza in aula della ex moglie che, in una deposizione sofferta che rovesciava quella resa in precedenza alla procura generale durante l’inchiesta, lo ha riconosciuto nel filmino in super8 realizzato quel giorno in stazione da un turista svizzero. Il succo della vicenda processuale all’osso è tutta qui, oltre che nello sgretolarsi della versione dello stesso Bellini, che ha sempre negato tale circostanza, ma che ha visto il proprio alibi (date, spostamenti, orari) nettamente smentito. La ricchezza di elementi emersi nell’inchiesta e cristallizzati a dibattimento va però molto oltre la questione della colpevolezza di Bellini. E più avanti vedremo perché.
Mandanti e depistaggi
Una camera di consiglio di appena tre ore, dopo un dibattimento durato quasi un anno esatto (la prima udienza si era tenuta il 16 aprile 2021) e per ben 76 udienze: già questo è un dato che la dice lunga su quanto la Corte (i togati Francesco Maria Caruso, presidente, e Massimiliano Cenni, più sei giudici popolari) non abbia avuto dubbi.
Eppure un anno fa i dubbi c’erano eccome, visto che dietro a Bellini, oggi 68enne, lo sfondo del processo (e prima ancora dell’inchiesta della procura generale) riguardava finalmente, per la prima volta, mandanti e organizzatori della strage. E passi per Licio Gelli e Umberto Ortolani, i vertici di quella P2 già pesantemente coinvolta per i depistaggi (con condanne definitive, oltre che per Gelli, per altri piduisti come il numero due del Sismi Pietro Musumeci e l’ineffabile Francesco Pazienza), ma veder rispuntare nomi che sembravano appartenere a una stagione precedente, come quelli dell’ex capo dell’Ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato e del giornalista Mario Tedeschi, già parlamentare missino e direttore del “Borghese” (oltre che grande amico di D’Amato), aveva sollevato più incredulità che indignazione. Anche in tutti coloro che mai in questi anni si sono fatti tentare dalla pista palestinese.
Solo l’inizio
«Questo è solo l’inizio», ha commentato Sonia Zanotti: bolzanina, da sempre attiva nel coltivare la memoria della strage (fa parte del consiglio direttivo dell’Associazione tra i familiari delle vittime), quella mattina di agosto aveva 11 anni, era seduta proprio nella sala d’aspetto e sopravvisse miracolosamente dopo un calvario di decine di operazioni chirurgiche. Si riferiva ai prossimi passaggi in appello e Cassazione, ma il dispositivo della sentenza consente di prevedere anche ulteriori sviluppi.
La Corte ha infatti rinviato al pm gli atti relativi a deposizioni rese in aula da tre testi (Stefano Menicacci, già deputato del Msi, Giancarlo Di Nunzio, nipote del cambiavalute di Gelli, e Piercelso Mezzadri, legato a Bellini e alla sua famiglia), affinché valuti l’ipotesi di procedere nei loro confronti per il reato di depistaggio, per il quale mercoledì è già stato condannati a sei anni l’ex capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel.
Quattro anni per false informazioni al pm al fine di sviare le indagini, invece, sono stati comminati a Domenico Catracchia, amministratore condominiale di una palazzina di via Gradoli a Roma che ospitò covi sia delle Br che dei Nar. Non solo: atti rinviati al pm anche per quanto riguarda le deposizioni di altri tre testi. E qui va aperta una parentesi importante.
Infedeltà
Si tratta infatti di tre tecnici di polizia scientifica, una cui perizia è stata a lungo al centro della fase dibattimentale. Si trattava della “pulizia” dell’audio di una intercettazione ambientale in cui Carlo Maria Maggi, leader di Ordine nuovo nel Triveneto (morto nel 2018 dopo essere stato condannato in via definitiva per la strage del 1974 di piazza della Loggia a Brescia), affermava che a Bologna c’era stata anche la mano di «un aviere». Cioè Bellini.
Dopo la “ripulitura” dell’audio, la frase si era però trasformata in «sbaglio di un corriere», cioè una delle tesi da tempo propugnate da chi non crede alla matrice neofascista dell’attentato. Ebbene, in aula quei tre tecnici (Fabio Giampà, Stefano Delfino e Giacomo Rogliero) hanno in sostanza ammesso la non attendibilità tecnica della loro perizia e, soprattutto, di essere stati a conoscenza del rilievo della questione “corriere e non aviere”.
Tutto questo per confermare una volta di più quanto sulla vicenda bolognese sia sempre presente l’ombra del depistaggio. O meglio, per dirla con Andrea Speranzoni, avvocato di parte civile, che al centro di tutto stia «l’infedeltà all’interno delle istituzioni».
Fili dell’eversione
Lo scenario proposto dalle sentenze Cavallini e Bellini è ora ben diverso dalla lettura che è stata data per anni della strage di Bologna: non più l’opera di un gruppo di ragazzetti incontrollabili ed esaltati (i Nar dello “spontaneismo armato”), bensì un’operazione lungamente studiata, quanto in alto ancora non si sa, ma sicuramente organizzata e finanziata dalla P2: la parte dell’inchiesta relativa ai flussi di denaro nei mesi pre-strage ha ottenuto infatti una miriade di riscontri.
Il tutto con la collaborazione di pezzi dello stato e saldando tra loro (qui siamo al livello degli esecutori) tutte le sigle della frastagliata galassia dell’eversione nera: i Nar di Mambro, Fioravanti e Cavallini, Terza posizione cui apparteneva Ciavardini e Avanguardia nazionale di Bellini.
Senza dimenticare i rapporti di Cavallini con vecchi arnesi di Ordine nuovo (oltre che con i servizi segreti). E tutto questo in una logica di ininterrotta continuità con i tanti episodi stragisti e gli altrettanto numerosi progetti golpisti degli anni Settanta: quell’aspra stagione della strategia della tensione, insomma, che nell’agosto del 1980 l’Italia sembrava aver definitivamente archiviato, ma che – per chi ne reggeva i fili – non era invece affatto conclusa.
Scontri giudiziari
Bellini ricorrerà certo in appello, come ha già fatto Cavallini. E già si sa che i due processi verranno probabilmente accorpati: lo ha ipotizzato lo stesso presidente della Corte d’appello bolognese Oliviero Drigani, parlando di carenze di personale degli uffici giudiziari e ipotizzando una prima udienza già entro fine anno.
Se così avverrà, andrà sciolta anche l’apparente contraddizione tra le posizioni di Bellini e Cavallini, visto che quest’ultimo nel 2019 venne condannato per strage “semplice” e non “politica”: il che, visto che si trattava anche allora di concorso con Fioravanti e camerati vari, aveva fatto un po’ discutere. Ma quella sentenza andava letta alla luce delle ruggini tra procura e Corte d’assise, che sono state peraltro alla base anche del procedimento Bellini, visto che venne avocato dalla procura generale, circostanza abbastanza irrituale nella giustizia italiana.
Il processo Cavallini è stato infatti caratterizzato da una notevole attività istruttoria da parte della stessa Corte d’assise a dibattimento in corso: e già lì si era capito che qualcosa non era filato dritto. La procura alla fine ha chiesto per Cavallini l’ergastolo per strage politica, ma nella parte finale delle motivazioni della sentenza, durissima, il presidente Michele Leoni ha bacchettato duramente la pubblica accusa, dicendosi in sostanza costretto a emettere una condanna per strage semplice benché fosse chiarissimo che si trattava invece di strage politica, proprio perché la procura non aveva motivato a sufficienza la richiesta. Anzi, per essere precisi: la richiesta era sostanzialmente insensata poiché i Nar erano definiti ripetutamente un gruppo spontaneista, che cioè non prendeva ordini da nessuno.
L’incontro
Questo punto costituisce il nucleo dell’ininterrotta autodifesa dei Nar per quanto riguarda la strage di Bologna. Ed è un punto che il dibattimento Bellini ha invece contraddetto di continuo, al punto di ipotizzare con solidi indizi (così la requisitoria della procura generale) un incontro romano di Mambro e Fioravanti con Gelli (o chi per lui) all’immediata vigilia della strage: altro che spontaneismo, insomma.
Le motivazioni della sentenza Bellini consentiranno di capire fino a che punto questa ricostruzione generale sia stata accolta dalla Corte. Ma tutto già indica che lo è stata ampiamente.
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