Da Abele e Caino passando per i duellanti di Joseph Conrad si arriva alla curva del Manchester City che ricorda a Vinícius Júnior che Rodri ha preso il Pallone d’Oro, o al fratello di Filippo Tortu indagato dalla procura di Milano con l’accusa di aver spiato Marcell Jacobs. Anche la federazione di atletica leggera ha aperto un’inchiesta, perché Giacomo Tortu è tesserato come dirigente e per chiarire se Filippo sapesse: lui dice di no. Come potranno ancora passarsi il testimone sembra una buona domanda da porsi. Cosa penseranno all’estero dopo le malizie del 2021 è un quesito perfino migliore.

La storia dei dualismi

La continuazione di una rivalità sportiva con altri mezzi interessa meno, ma senza rivalità – vere, intentate, passate, presenti – non c’è trama e quindi sport e racconto. Dalla Storia al cinema alle religioni fino all’ultimo retro di casa dove due essere umani cercano il canestro: la rivalità è tutto. Se Napoleone non avesse sfidato l’Europa non ci sarebbe l’Europa. Se Giulio Cesare e dopo Maradona non avessero cercato sfide continue, contrapposizioni, persino Shakespeare ne avrebbe sofferto. La rivalità è tutto: verso sé stessi, gli altri, la natura, altrimenti non c’è anima-zione. 

Il Novecento è stato un grande secolo di rivalità sportive, gli atleti hanno incarnato ragioni e sentimenti, risolto o alimentato guerre, regalato arte sull’arte sportiva, commosso e smosso – biografie, coscienze, amori –, fatto crescere e unito nella divisione, perché alla base c’è la passione, anche nelle rivalità – sportive – insane.

Non aveva importanza se poi le squadre o i singoli atleti fuori dal campo d’azione non fossero rivali, ma si erano limitati a recitare una rivalità, quello che contava e conta, era ed è la trama della rivalità. Per ogni sport ne troviamo diverse: quelle dove era difficile scegliere e le altre dove invece scegliere era ed è un obbligo, fin dalla scelta madre che decreta(va) i chi siamo e che vogliamo: Ettore o Achille, il vecchio tele-radio-cronista Omero lo sapeva, scegli e saprai chi sei: ettorista o achilleide, il resto verrà di conseguenza.

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Dopo Achille e Ettore, nel grande libro delle rivalità, vengono Fausto Coppi e Gino Bartali: senza di loro tutto sarebbe più povero, il ciclismo e noi. Per trovare una contrapposizione così alta che tira giù tutto: dal modo di stare al mondo fino a come vestirsi, bisogna andare alla rivalità calcistica che vede Maradona contro Pelé. Perché come nel caso dei grandi ciclisti c’è la tradizione e l’innovazione: Pelé e Bartali che vengono travolti dal nuovo Coppi-Maradona. Poi i ciclisti si sono sfidati, i calciatori no, si sono amati, odiati, sfanculati, riappacificati, e poi hanno commiserato quelli che sono venuti dopo, gli umani che osavano sfidare il loro Olimpo di rivalità: pensate a Cristiano Dorian Gray Ronaldo e Lionel Messi. In moltissimi casi la rivalità serve tantissimo ai rivali per crescere, è il caso dei piloti di Formula Uno: Alain Prost e Ayrton Senna, il brasiliano col tempo ha capito che senza il cinismo e i calcoli del francese sarebbe rimasto un pilota selvaggio che voleva solo andare al massimo, cosa che poi ha fatto con una testardaggine da predestinato.

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Un Ettore e un Achille

Assoluti e selvaggi in pista, come Niki Lauda e James Hunt. Che giocavano a scambiarsi i ruoli. Due tipi diversi d’essere assoluto – Niki – e selvaggio – James –. Ma il grosso della rivalità si potrebbe ascrivere al rischio. Prost diceva che Senna era pazzo e che non aveva paura di morire perché aveva Dio dalla sua parte, era quello che anche Lauda pensava di Hunt o andando più indietro quello che Achille Varzi imputava a Tazio Nuvolari, come se gli altri poi trovando la prudenza in un pelo di secondo in meno fossero moderati. Quasi che il coraggio che ci vuole per andare in pista fosse divisibile per simpatia. In realtà i piloti selvaggi conquistano di più perché rischiano quel tanto in più che basta a portarli fuori dall’umano, ma è probabile che gli assoluti Prost, Lauda, Varzi siano stati anche più audaci e coraggiosi ma l’abbiamo dimenticato perché la loro audacia e il loro coraggio è servito per alimentare quello dei selvaggi Senna, Hunt, Nuvolari, che poi finiscono pure nelle canzoni.

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Questa divisione tra pulito e sporco, aggressivo e calcolatore aiuta molto a capire le rivalità nella boxe, anche se poi le categorie si mescolano e torna tutto a ragioni che la ragione ignora: perché Muhammad Ali rispetto ai suoi rivali Sonny Liston, Joe Frazier o George Foreman, è stato tutto per rimanere sé stesso: pulito/sporco; riflessivo/aggressivo; achilleide/ettorista. Un esempio di rivalità costruttiva è stata quella nelle immersioni d’apnea tra Enzo Maiorca e Jacques Mayol o quella nel basket tra Larry Bird e Magic Johnson uniti dalla possibilità di giocare nella stessa nazionale, Usa, un esempio di rivalità affluente: che poi diventa stesso mare di vittorie.

Velenosi o amichevoli

Costruttiva è stata la rivalità tra Roger Federer e Rafa Nadal, dove l’agonismo e la sfida non ha mai lasciato un ace alla mancanza di rispetto, e quell’ace è arrivato a farlo Novak Djokovic infilandosi nella diarchia sentimetal-tennistica e provando a batterla a suon di record; è lo stesso metodo di Cristiano Ronaldo che oltre Messi – che gli scippa i Palloni d’Oro creando una saga da Padrino – deve combattere contro Ronaldo quello vero e basta, che non sentendo nessuna rivalità ha adottato il metodo Panatta: mi diverto e ingrasso, l’ultima delle grandi rivoluzioni.

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Il tennis, tolto Nicola Pietrangeli che sembra creato da Age e Scarpelli, pure nelle rivalità che sembravano assolute come quella John McEnroe e Bjorn Borg – poi finita in sfida pubblicitaria in un supermercato – sembra dire sì, sì, sono sfide sofferte e lunghe 34 punti di tie-break, ma niente di serio veramente. Anche perché la rivalità esiste solo nel momento in cui si contrappongono due mondi che sono anche la vetta dello sport che praticano, per questo tra Nick Kyrgios e Jannik Sinner non c’è, perché non c’è partita, se non nella funzione di sporcare la maglietta del tennista italiano mentre tutto il circuito gliela lava e stira.

Ci sono anche le rivalità dormienti o degli staffettisti come quelle tra Gianni Rivera e Sandro Mazzola o tra Totti e Del Piero; diverse sono le rivalità fintamente dormienti come dentro la Valanga Azzurra di sci tra Gustavo Thoeni e Piero Gros l’altro ieri, tra Manuela Di Centa e Stefania Belmondo ieri, e Federica Brignone contro Sofia Goggia oggi, racchiudibili nel «Non siamo amiche ma c’è rispetto», sì, quando si trovano in continenti differenti.

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Diversa, invece, è la rivalità velenosa e accesissima nella MotoGp tra Valentino Rossi e Marc Márquez dove il pilota spagnolo si prese la briga di far perdere un mondiale a quello italiano, una cosa mai vista nello sport, per farlo vincere a Jorge Lorenzo. Uno dei momenti più bassi dello sport nella storia dei momenti bassi dello sport. Imperdonabile. Come la rivalità mai risolta tra Elisa Di Francisca e Valentina Vezzali nella scherma. Certe rivalità fanno giri enormi e poi si risolvono in una birra e altre fanno giri enormi e poi continuano ad alimentarsi in una contrapposizione che dai campi si estendono alle tivù, ai palchi, ai festival, perdendo l’azione nello sport, diventano semplice dissing, quindi l’effimero che si fa a parole senza nemmeno la bellezza dell’eros che pure a parole contiene sempre un po’ di fascino come sapevano Franco Battiato e le prostitute libiche.

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