- La procura di Perugia ha aperto un’inchiesta sull’esame di lingua di Luis Suarez, calciatore del Barcellona a caccia della cittadinanza italiana
- Il mondo del calcio muove interessi economici enormi: le lobby del pallone hanno ottenuto privilegi in materia fiscale
- Qualche mese fa polemiche anche per i tamponi anti Covid 19 che calciatori famosi sono riusciti a fare prima di infermieri e medici
In un paese diseguale che ha abdicato da tempo alla lotta di classe preferendo dirigere l’indignazione popolare su Caste vere o presunte, l’affaire di Luis Suárez cade a fagiolo. Orfana da poche ore della retorica antipolitica (che con taglio di onorevoli e senatori ha toccato il suo zenit ma intonato, dicono gli ottimisti, il canto del cigno) l’opinione pubblica ha trovato subito un nuovo nemico: l’attaccante milionario, straniero e forse un po’ imbroglione.
Suárez, promosso all’università per stranieri di Perugia all’esame di italiano nonostante non «spiccicasse» una parola della lingua, a differenza dei professori che lo avrebbero favorito non è indagato dai pm umbri. Ma è assurto comunque a simbolo di un’elite viziata e arrogante. I miliardari in braghe di pantaloni sono oggetto di invidia sociale non da ora, a causa degli stipendi faraonici garantiti dallo showbiz. Ma negli ultimi mesi il calciatore è diventato paradigma non solo di diseguaglianze inaccettabili, ma portatore di privilegi apparsi – anche ai tifosi meno obiettivi – poco tollerabili. Nemmeno fossero parlamentari a difesa di vitalizi.
La crisi d’immagine è iniziata a marzo, in piena pandemia da Covid-19: mentre malati giovani e anziani, medici e infermieri non riuscivano a farsi i tamponi necessari a causa della penuria di test negli ospedali, portieri e centrocampisti (spesso senza sintomi da Covid) riuscivano a ottenere analisi approfondite, a volte comodamente a domicilio. Ad altri veniva consentito di lasciare il suolo italiano nonostante il lockdown, con il beneplacito della dirigenza dei club che giustificavano le partenze con scuse fantasiose. Vantaggi garantiti dallo status, ma per la massa improvvisamente ingiustificabili. Tanto che l’associazione della categoria (l’Aic) s’è affrettata a spiegare di «voler tornare a svolgere il proprio lavoro, ma senza usufruire di corsie preferenziali sui controlli medico sanitari».
Il calciatore, va detto, è solo l’utilizzatore finale degli aristocratici privilegi. I benefit fiscali che permettono ai campioni di pagare aliquote vantaggiose sono in effetti stati approvati dai governi di sinistra e destra dopo le pressioni del “sistema calcio”. Una lobby influente: secondo le stime del Sole 24 ore, intorno alla Serie A il giro d’affari supera ormai i 13 miliardi di euro l’anno. Il decreto crescita approvato dal Conte I, grazie un articolo dedicato al rientro dei cervelli, permette oggi a sportivi e professionisti che vivono all’estero di godere - nel caso decidano di venire a lavorare in Italia - un’esenzione sull’Irpef sul 70 per cento del reddito. Un modo corretto per attrarre le energie migliori che avevano lasciato il paese, ma che consente alle squadre di trattare gli stipendi al netto, risparmiando poi milioni di tasse.
Agli sgravi fiscali, ai tamponi ad personam e alle nuove regole sul pubblico (per alcuni virologi permettere nell’attuale fase pandemica l’ingresso di mille spettatori allo stadio è una follia), s’aggiunge la vicenda dell’esame farlocco. Un eccesso di risentimento collettivo? Può darsi, ma le frasi intercettate di uno dei professori di Perugia («Suarez deve passare l’esame, perché con 10 milioni a stagione di stipendio non glieli puoi far saltare») ha chiarito ancora una volta che in Italia chi ha i soldi e gli agganci giusti può fare ancora quello che gli aggrada. Pure ottenere la promozione a un esame di lingua («non spiccica una parola, coniuga i verbi solo all’infinito») podromo a intascarsi il passaporto comunitario, documento necessario a giocare nella squadra che avrebbe voluto ingaggiarlo.
Ma la presunta truffa scatena riprovazione anche tra chi se ne frega dei conti in banca milionari («è il mercato, bellezza»), ma è attento ai diritti di coloro che la cittadinanza italiana la vivono come chimera irraggiungibile. Si tratta dei lavoratori extracomunitari, che secondo le norme in vigore per chiederla devono risiedere legalmente sul nostro territorio per più di 10 anni. E dei ragazzi nati e cresciuti in Italia, che a causa dell’assenza di una legge sullo Ius Soli, temperato o meno che sia, per guadagnare il passaporto devono aspettare la maggiore età. “Italiani apolidi” che parlano la lingua di Petrarca assai meglio di Suárez, ma che per avere diritti civili che lo Stato dovrebbe garantire di default, dovranno aspettare. Molto più tempo di qualche sportivo che non «spiccica», ma ha soldi e potere.
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