Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Tutti gli elementi rassegnati convergono dunque ad asseverare la conclusione di cui si diceva, tranne uno: la testimonianza di Sandra Amurri, nota e stimata giornalista de Il Fatto Quotidiano, sul colloquio da lei accidentalmente captato il 21 dicembre 2011 - mentre si trovava al bar Giolitti di Roma [...]. Nella valutazione del giudice di primo grado, invero, la testimonianza dell’Amurri, letta alla luce dei molteplici e puntuali riscontri acquisiti anche sul contesto in cui si collocavano il colloquio di Mannino con l’on. Gargani e le preoccupazioni espresse dal primo al secondo, è una fonte idonea a comprovare, unitamente agli elementi che ne corroborano l’attendibilità, che il Mannino effettivamente si adoperò per sollecitare la sostituzione di Scotti al vertice del dicastero degli Interni; e che lo fece proprio per creare le premesse necessarie o comunque uno scenario politico più favorevole allo sviluppo della cosiddetta “trattativa”.

[…] Il suo allontanamento da tale ruolo costituiva quindi, nella prospettazione accusatoria, che per questa parte il giudice di prime cure mostra di condividere, un passaggio non ancora sufficiente ma certamente necessario e ineludibile per il buon esito del tentativo, che si assume orchestrato o ispirato dal Mannino, di allacciare un dialogo sotterraneo con Cosa nostra, oltre a lanciare un segnale di discontinuità nell’azione di governo, sul versante della lotta alla mafia: nel senso che l’avvicendamento di Scotti, all’indomani della strage di Capaci, ben poteva leggersi all’esterno come una tacita sconfessione dell’operato del ministro uscente, sintomatica del proposito del nuovo governo di abbandonare o di ammorbidire la linea di politica criminale in precedenza portata avanti soprattutto per impulso dello stesso Scotti (e così fu inteso, secondo la corte d’Assise di primo grado, tanto da potersi valutare come uno dei fattori che concorsero a rafforzare nei vertici di Cosa nostra la convinzione che la strategia stragista fosse l’unica che poteva costringere lo Stato a trattare).

Ebbene, la testimonianza della giornalista de Il Fatto Quotidiano validerebbe, ad avviso del primo giudice, tale ipotesi ricostruttiva (fermo restando che le contraddittorie risultanze o la reticenza e la lacunosità delle testimonianze dei politici escussi non consente comunque di pervenire ad analoga certezza circa il fatto che l’avvicendamento di Scotti sia stata determinata da una condivisione da parte del gruppo dirigente democristiano e dello stesso presidente Scalfaro dell’inconfessabile finalità che avrebbe animato il Mannino nel sollecitare quella scelta, e non piuttosto dal combinato disposto di ambizioni - e timori - personali e giochi di corrente o dinamiche di potere interni al partito di maggioranza relativa).

Le due interpretazioni dei giudici

È una conclusione che questa Corte non ritiene di poter sottoscrivere. Ma ciò, va detto subito, per ragioni che non mettono affatto in discussione il positivo apprezzamento già espresso dai giudici di primo grado in ordine all’attendibilità della testimonianza della Amurri.

[...] Non v’è stata alcuna suggestione o travisamento degli elementi più significativi che l’Amurri ebbe a cogliere nel colloquio captato a insaputa dei due interlocutori. Elementi in sé troppo scarni e frammentari o allusivi o pieni di rimandi e sottintesi per poter essere decifrati, se avulsi dal contesto della vicenda cui i due si riferivano; e che la giornalista del “Fatto” ha posto a disposizione dell’a.g. Negli esatti termini e nei limiti in cui le era occorso di raccoglierli, ovvero in circostanze del tutto fortuite, e che hanno trovato conferma nella testimonianza dell’on. Di Biagio.

Al riguardo non può che rimandarsi alle persuasive considerazioni spese nella sentenza impugnata che questa corte ritiene di dovere integralmente sottoscrivere.

[…] Già non è difficile credere che l'Amurri abbia istintivamente - ovvero, per deformazione professionale - aguzzato le orecchie, trovandosi nella condizione di poter ascoltare “in diretta”, e all’insaputa degli interlocutori (solo alla fine, a suo dire, Mannino si sarebbe accorto della sua presenza, e avrebbe detto qualcosa al suo interlocutore) un discorso confidenziale di un noto politico, qual certamente era il Mannino, tanto più se pronunciato con tono molto concitato e preoccupato.

E poi è comprensibile che le frasi più significative (e, in particolare: «Lui è stato chiamato e deve dire, deve confermare le nostre versioni, perché questa volta ci fottono»; “quel cretino di Ciancimino figlio di cazzate ne ha dette tante, ma su di noi ha detto la verità. Perché tu lo Sai, no? Il padre, il padre di noi insomma sapeva tutto»; «a Palermo hanno capito tutto, questa volta ci incastrano, questa volta ci fottono»; «Sì, lo so che hai capito, ma io te lo ripeto, tu devi dire a De Mita che deve assolutamente dire le stesse cose nostre, assolutamente, assolutamente») le siano rimaste scolpite nella memoria proprio a causa del turbamento che le suscitarono sul momento […]. Ma soprattutto, come la stessa Amurri ha dichiarato, ella non mancò di appuntarsi per iscritto quelle frasi, o i passaggi che più l’avevano colpita del colloquio, approfittando del fatto che era seduta ad un tavolino mentre Mannino e il suo interlocutore discorrevano a pochissima distanza da lei [...].

[…] Non v’è dubbio quindi che, sapendo che De Mita era stato citato a comparire dinanzi alla procura di Palermo, e che la citazione nasceva dalle dichiarazioni rese da Vincenzo Scotti nell’ambito dell’indagine “Trattativa”, il Mannino era davvero preoccupato di ciò che l’ex presidente della D.C. avrebbe potuto riferire ai magistrati; e rassegnò al Gargani l’assoluta necessità che rendesse dichiarazioni in linea con la loro versione dei fatti: cioè con la verità “ufficiale” che voleva l’avvicendamento di Scotti con Mancino determinata solo dal rifiuto del primo di sottostare alla regola dell’incompatibilità tra lo status di parlamentare e gli incarichi di governo, senza altri fini reconditi.

I sospetti della Procura

In sostanza, la preoccupazione di Mannino era che se le dichiarazioni di De Mita non si fossero allineate ad una concorde versione sulle ragioni della mancata conferma di Scotti, ne potessero uscire corroborati dubbi e sospetti sulle vere finalità di quella manovra. Quei dubbi e sospetti che evidentemente la procura di Palermo già nutriva, poiché altrimenti non avrebbe avvertito l’esigenza di sentire De Mita (e anche Forlani, come giustamente rammenta il teste Gargano: segno che voleva vederci chiaro su quella vicenda.

La frase poi che l’Amurri attribuisce a Mannino circa il fatto che a Palermo avessero capito tutto, e che il Ciancimino, che aveva fino a quel momento raccontato un cumulo di sciocchezze e menzogne, stavolta aveva detto la verità su di loro, lascerebbe intendere che quei sospetti erano fondati. E, in particolare, che le vere ragioni avessero a che vedere con l’ipotizzata trattativa segreta (già in corso), ovvero che l’avvicendamento di Scotti con Mancino ne fosse parte integrante, perché avrebbe creato le premesse politiche per l’abbandono o l’ammorbidimento della linea d’azione del governo nel contrasto alla criminalità mafiosa e l’adozione di una linea propensa a esplorare la possibilità di un negoziato con l’organizzazione mafiosa per far tacere le armi ed evitare ulteriori delitti in particolare ai danni di esponenti politici del partito che sembrava essere più di altri bersaglio della violenza.

D’altra parte, è vero che Massimo Ciancimino non aveva formulato accuse nei riguardi di Mannino né fornito indicazioni circa un suo possibile coinvolgimento nella vicenda della trattativa condotta attraverso l’intermediazione di suo padre e dei carabinieri del Ros.

Ma ai difensori come ai giudici del processo Mori/Obinu — in cui pure il tema dell’avvicendamento di Scotti con Mancino era stato lumeggiato — e del processo-stralcio a carico di Calogero Mannino è sfuggito un punto che è stato invece evidenziato dai giudici della corte d’Assise di primo grado del presente processo: tra le tante dichiarazioni rese, il Ciancimino (figlio) aveva detto di aver saputo da suo padre, e in anticipo rispetto a quanto poi era avvenuto, che Scotti, con il quale Vito Ciancimino riteneva non sarebbe stato possibile alcun “dialogo”, non sarebbe stato confermato nell’incarico, per essere sostituito da Mancino (che sarebbe stato poi il terminale politico-istituzionale della trattativa).

In altri termini, lo stato maggiore del partito di maggioranza relativa avrebbe deciso fin dall’inizio delle trattative per la formazione del nuovo governo di escludere Scotti per fare posto a Mancino; e in questo senso il Mannino avrebbe confidato al Gargani che il giovane Ciancimino una volta tanto aveva detto la verità, attingendo quell’informazione a una fonte, suo padre, che sapeva tutto dei suoi ex colleghi di partito e delle dinamiche interne alle correnti.

Ma il condizionale è d’obbligo perché proprio su questo punto specifico, come s’è visto, l’on. Gargani ha tenuto botta, smentendo categoricamente la versione di Sandra Amurri e insistendo nell’affermare che, al contrario, Mannino era stupito del fatto che i magistrati di Palermo potessero credere alle fandonie di Ciancimino (figlio).

Ma a parte l’incertezza derivante dalla persistenza del contrasto tra le due versioni (anche la frase che l'Amurri attribuisce a Mannino, secondo cui a Palermo avevano capito tutto, giusta la versione del teste Gargani potrebbe piuttosto interpretarsi nel senso che i magistrati di Palermo, prestando fede alle propalazioni di un menzognero come Massimo Ciancimino, erano convinti di avere capito tutto, ovvero si erano affezionati a un teorema), ritiene questa Corte che non si possa comunque condividere la lettura in chiave accusatoria delle preoccupazioni espresse dal Mannino nel corso del suo colloquio con l’on. Gargani, come sposata dal giudice di prime cure.

Ed invero, tale lettura è all’evidenza smentita, anzitutto, dal fatto che, anche prestando fede alla testimonianza di Sandra Amurri nella parte in cui riporta le parole e le frasi che il Mannino avrebbe pronunciato nel corso del colloquio con l’amico e collega di partito Giuseppe Gargani, il Mannino ha declinato sempre e solo al plurale il soggetto che avrebbe avuto motivo di temere qualcosa dalla prevista e imminente escussione di Ciriaco De Mita sulla vicenda della mancata conferma di Scotti a ministro degli Interni e contestuale designazione al suo posto del senatore Mancino.

Orbene, se fosse corretta la lettura sposata in sentenza, e considerato che tale sostituzione fu decisa all’unanimità dall’ufficio politico della Dc nella sua massima collegialità (e cioè nella composizione allargata alla partecipazione anche dei due vice-segretari, che all’epoca erano l’on. Silvio Lega e l’on. Sergio Mattarella, se ne dovrebbe inferire che l’intero gruppo dirigente della Democrazia cristiana, all’epoca ancora partito di maggioranza relativa e con un peso corrispondente nella coalizione politica che sostenne il nascente governo Amato, o quanto meno i vertici della corrente della sinistra democristiana [...] non soltanto avrebbero condiviso con Mannino la decisione di sostituire Scotti al vertice del Viminale, ma soprattutto avrebbero pienamente condiviso la vera ragione ditale decisione, che si vorrebbe far consistere in un mutamento di linea politica del Governo, nell’azione concreta di contrasto al fenomeno mafioso, tale da propiziare lo sviluppo della presunta trattativa con Cosa nostra.

La questione del Viminale

Insomma, a voler assecondare tale lettura, le preoccupazioni di Mannino tradirebbero, nei riguardi dell’intero gruppo dirigente della Dc che all’epoca optò per l’avvicendamento di Scotti con Mancino, una sorta di chiamata in correità, almeno sotto il profilo della (cor)responsabilità di una precisa e grave scelta politica — quale sarebbe stata, in ipotesi, quella di negoziare con Cosa nostra per ottenere la cessazione delle stragi o comunque degli ulteriori spargimenti di sangue paventati nel quadro di un escalation di violenza mafiosa che sembrava avere assunto gli esponenti democristiani a bersaglio principale -, ancorché priva in sé di rilievo penale (giacché la scelta di negoziare. sia pure con un’organizzazione criminale, in sé considerata non integrerebbe comunque alcuna ipotesi di reato). [...] è certo che non si verificò alcun mutamento nella linea d’azione del governo sul versante della lotta alla mafia, nelle settimane e nei mesi successivi all’insediamento del governo Amato; né, per quanto può evincersi al riguardo dalle deposizioni degli esponenti democristiani escussi nel giudizio di primo grado, una simile eventualità si profilò, anche solo come opzione da valutarsi, quando si decise l’avvicendamento di Scotti con Mancino.

E gli atti parlamentari relativi all’iter di conversione del Di. 306/1992 (“modifiche urgenti al codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”), danno ragione a tale assunto perché dimostrano la compattezza dei gruppi parlamentari della Dc nel sostenere il disegno di legge di conversione del decreto legge predetto, nonché la necessità, dopo la strage di via D’Amelio, di approvarlo in tempi rapidi (con le modifiche di cui al max-emendamento presentato dal Governo, proponenti i ministri Mancino e Martelli), così da evitare la decadenza delle disposizioni più incisive.

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