Il generale è a conoscenza di incontri personali tra i due, ma ne ricorda uno solo, che risale a quando ebbero notizia di un attentato progettato ai danni dell’on Mannino. Allora ebbe modo di parlarne con Subranni, che aveva una sede del Ros già operativa a Palermo, affinché avvisasse l’on. Mannino del pericolo e comunque attivasse la sede di Palermo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Disponiamo invero del repertorio completo delle dichiarazioni del Tavormina sui suoi rapporti con Antonio Subranni e con Calogero Mannino, e, più specificamente, sul tema degli incontri (con il Mannino o con il Subranni, o con entrambi) vertenti sul tema delle minacce al Ministro Mannino, o dei timori che questi ebbe ad esprimere per la sua incolumità (non così per le dichiarazioni rese sui medesimi temi dal generale Subranni e dal Contrada nel procedimento a carico di Calogero Mannino per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa; e dallo stesso Mannino in sede di interrogatorio di garanzia nell’ambito del medesimo procedimento: i difensori degli ex ufficiali del Ros, odierni imputati, si sono infatti opposti all’acquisizione che nel presente giudizio d’appello era stato chiesto dal p.g.).
Ed è dalle risultanze di quest’ultima fonte di prova dichiarativa, a partire dalla deposizione che il generale Tavormina ha reso nel giudizio di primo grado (udienza 9.01.2015), che occorre prendere le mosse.
[…] è stato dunque il primo direttore generale della Dia, dal gennaio 1992 fino a marzo del ‘93, quando andrà a ricoprire l’incarico di segretario del Cesis, fino al “rimpasto” con il cambio dei vertici di tutti gli apparati di sicurezza, conseguente all’insediamento del governo Berlusconi (maggio ‘94). Vanta un rapporto di grande stima con Ciampi, che prima lo vuole al Ministero del Tesoro; e poi come consigliere del Presidente, sino alla fine del suo settennato.
Originario di Ribera, studia a Sciacca (liceo classico); ma conosce il ministro Mannino a Torino, quando dirigeva la Scuola Allievi (1983-1984): un giorno lo chiama il generale Sateriale, che comandava la Brigata di Torino e lo invita a casa sua per presentargli un conterraneo di Sciacca, appunto l’on. Mannino: solo un incontro di presentazione, tra conterranei.
Successivamente, e anche prima di andare a dirigere la Dia, gli capitò di incontrare più volte l’on. Mannino dopo che egli era tornato a Roma con incarico di rilievo e Mannino, a sua volta, era divenuto ministro dell’Agricoltura o a capo di qualche altro dicastero. Ammette di avere avuto contatti personali, al di fuori di incontri ufficiali o per finalità istituzionali, in forza proprio della pregressa conoscenza.
Se il ministro lo chiamava per incontrano, come è certamente avvenuto, non aveva alcuna remora ad accogliere il suo invito, trattandosi comunque di una personalità di rango istituzionale, sicché lo si poteva considerare, all’epoca, un obbligo e non aveva scuse per sottrarvisi (insomma, una questione di galateo istituzionale); mentre non è mai accaduto il contrario, perché non ha mai avuto bisogno di incontrano per rappresentargli esigenze personali.
Nulla sa precisare in ordine all’oggetto di quegli incontri e a eventuali richieste. Deve però ammettere che in ragione degli incarichi ricoperti in quegli anni (tra il 1983-84 e il 1992, quando va a dirigere la Dia) non aveva alcuna “giurisdizione” sul territorio siciliano né aveva titolo per interessarsi a fatti che fossero accaduti al Mannino in Sicilia.
Peraltro, i carabinieri possono ricoprire la veste di ufficiali di polizia giudiziaria soltanto fino al grado di colonnello e quindi lui non era più ufficiale di polizia giudiziaria da quando era stato promosso al grado di generale: una precisazione spontanea, che sembra tradire la consapevolezza che le domande andassero a parare ad un suo eventuale interessamento a vicende giudiziarie del Mannino.
Conosce Subranni da anni: da quando era Capo di stato maggiore dell’Arma e lui - Subranni - andava al Comando generale a trovare un collega (il Generale Pisani, che poi diventò a sua volta Capo di stato maggiore dell’arma). Lo ha incontrato più volte, ma non hanno mai avuto rapporti per ragioni di servizio, fino a quando ha prestato servizio nell’Arma. In effetti, quando è andato a dirigere la Dia, più volte Subranni, che all’epoca era a capo del Ros, è andato a trovarlo, ma non per ragioni operative.
Erano incontri che potevano inquadrarsi in quel genere di rapporti “che si intrattengono tra Ufficiali quando ci si è conosciuti in precedenza”.
Sugli incontri tra Subranni e Mannino
È a conoscenza di incontri personali tra i due, ma ne ricorda uno solo, che risale a quando ebbero notizia di un attentato progettato ai danni dell’on. Mannino. Allora ebbe modo di parlarne con Subranni, che aveva una sede del Ros già operativa a Palermo, affinché avvisasse l’on. Mannino del pericolo e comunque attivasse la sede di Palermo (la Dia non aveva le necessarie capacità operative, perché ancora in fase di allestimento).
Precedenti incontri presso la segreteria politica del Mannino in Roma, via Borgognone: insieme a Subranni lo esclude. Lui invece può esserci andato e deve essere successo a cavallo del suo passaggio alla Dia (o poco prima o poco dopo).
Poi però precisa che in effetti una volta ricorda di essere andato a trovare Mannino a Roma insieme a Subranni, ma presso una sede diversa da via Borgognone; e fu prima dell’episodio delle minacce al Ministro. Non ricorda però il motivo della visita. Ma forse fu solo perché Mannino desiderava conoscere Subranni o vice versa e lui li presentò.
Quando gli viene contestato dal p.m. che, testimoniando al processo a carico dell’on. Mannino (verbale d’udienza dell’8 novembre 1995), il generale Subranni aveva parlato di più incontri avvenuti presso lo studio di via Borgognone con il Mannino alla presenza anche del Generale Tavormina. Questi dice di non averne alcun ricordo, anzi di apprendere solo adesso che Subranni avesse reso quelle dichiarazioni.
Tanto meno ricorda e anzi gli giunge del tutto nuova la circostanza che, secondo quanto dichiarato sempre dal generale Subranni nel processo Mannino, in occasione di quegli incontri a tre, il Mannino avrebbe chiesto loro una mano per dimostrare l’infondatezza delle accuse rivoltegli dal pentito Spatola: neppure questo nome gli dice niente.
Tornando all’incontro di cui ha un ricordo più preciso, è probabile che sia stato Tavormina a sollecitarlo, perché forse Mannino gli aveva rappresentato le sue preoccupazioni su Palermo e allora Tavormina, non avendo una struttura di riferimento in loco cui poterlo indirizzare (per l’aiuto che chiedeva),pensò di rivolgersi a Subranni, chiedendogli di mettersi in contatto con Mannino (ndr. e qui sembrerebbe alludere al fatto che ne sia seguito un incontro tra Subranni e Mannino, avendo lui fatto solo da ponte per metterli in contatto).
Cosa gli avesse detto Mannino, di preciso non lo ricorda; ma è certo che gli aveva espresso tutta la sua preoccupazione per il fatto che evidentemente gli erano arrivate delle notizie, dei segnali in virtù dei quali riteneva che potessero esserci rischi personali, soprattutto quando lasciava Roma per tornare a Palermo.
L'oggetto degli incontri e le minacce a Mannino
È stato lo stesso Tavormina spontaneamente — come se continuando a parlarne, sgorgassero senza bisogno di alcuna sollecitazione ricordi più nitidi e dichiarazioni meno reticenti - a dire che questi incontri non è che furono numerosi, il che vai quanto dire che comunque furono anche più d’uno; sebbene lui ne ricordi uno in particolare in cui si accorse che Mannino era piuttosto preoccupato; e ne ricorda altresì un altro, e cioè l’episodio in cui fu lui, Tavormina, a preoccuparsi perché alla Dia era arrivata la notizia di un possibile — e imminente — attentato (perché da Palerno doveva recarsi ad Agrigento per il fine settimana, o qualcosa del genere): anche se non sa precisare se questo episodio avvenne prima o dopo l’incontro in cui era stato lo stesso Mannino a esprimergli la sua preoccupazione.
Propende però a ritenere, come in effetti è più plausibile, che la sua preoccupazione alla notizia del possibile attentato fosse acuita proprio dal fatto che era stato messo in preallarme per così dire dall’avere in precedenza raccolto le preoccupazioni esternate da Mannino.
Anzi, è plausibile che siano state proprio quelle esternazioni a indurre Tavormina ad attivare ogni possibile fonte per saperne di più: e ciò spiegherebbe come sia giunta alla Dia la notizia di un attentato che veniva dato per imminente o comunque già in fase avanzata di preparazione.
Stabilito l’ordine di successione tra i due episodi, il teste ritiene di potere con buona approssimazione collocare il primo episodio, quello in cui Mannino ebbe a esternargli le sue preoccupazioni, nei primi mesi del 1992, e comunque in epoca successiva non solo alla conclusione del maxi-processo, ma anche all’omicidio Lima. Quelle preoccupazioni, infatti, scaturivano da una riflessione, condivisa negli organismi investigativi dell’epoca e comunque nella Dia che riconduceva la causale dell’omicidio Lima all’esito del maxi-processo.
Non ricorda se Mannino ebbe a parlargli di specifici atti di intimidazione (del tipo di quelle di cui diedero notizia i giornali dell’epoca): non può escluderlo né confermarlo. Ma poi conferma quanto aveva dichiarato in precedenza, e precisamente all’udienza del 19 luglio 2000, al processo Mannino, quando certamente i suoi ricordi erano più freschi: in effetti, il Mannino gli “rappresentò delle grosse preoccupazioni.
A questo proposito, sentendosi appunto vittima di minacce che venivano indirizzate nei suoi confronti per l’attività politica che svolgeva a livello diciamo di evidenza in quel periodo. Quindi lui attribuiva il fatto di vivere in Sicilia e di esercitare queste sue funzioni politiche e governative a livelli così elevati, attribuiva a tutto questo. va bene, una serie di iniziative a carattere intimidatorio che venivano portate nei suoi confronti e la cosa lo preoccupava”.
Ma esclude che alla Dia fossero pervenute formali denunce di atti intimidatori; né si premurò di invitare lo stesso Mannino sporgere formale denuncia. Piuttosto, scelse di rivolgersi a Subranni, contando sulla maggiore efficienza operativa del Ros.
E al riguardo deve convenirsi che neppure Subranni o il Ros furono destinatari di una formale denuncia, né trasmisero alcun rapporto-denuncia all’a.g. (a carico di ignoti). Sicché quella che attraverso gli sforzi combinati dei comandanti di due dei principali servizi centrali di polizia giudiziaria cominciò a tessersi sarebbe stata, nella lettura che ne dà la pubblica accusa, fatta propria per questo aspetto dal primo giudice, una sorta di rete di protezione privata, ma realizzata da apparati dello stato.
Il generale Tavormina ha detto di non sapere quali iniziative abbia poi intrapreso il Ros; ma se mal non ricorda, la notizia di un possibile e imminente attentato mise i carabinieri nelle condizioni di attivarsi per verificare la notizia che in effetti poi si rivelò infondata, o meglio successivi accertamenti non diedero alcun riscontro.
Ha poi confermato che la notizia di un imminente attentato a Mannino gli giunse quando già era a capo della Dia, nella seconda metà del 1992 e faceva riferimento ad un attentato da commettere lungo il tragitto che il ministro abitualmente percorreva per recarsi da Palermo ad Agrigento. Parlandone al processo Mannino, però, in un
primo momento aveva fatto risalire l’episodio ad epoca successiva alle stragi di Capaci e via D’Amelio. Adesso non è più sicuro che quel riferimento temporale sia corretto. E in effetti, deve convenirsi che già nel corso della deposizione resa al processo Mannino, aveva rettificato la sua prima dichiarazione, precisando di non poter affatto escludere che la notizia di un possibile e imminente attentato a Mannino fosse pervenuta alla Dia già nel giugno del ‘92, ossia prima della strage di via D’Amelio.
D’altra parte, aveva sbagliato anche nel datare il suo incontro con Guazzelli [...]. In sede di riesame, ha poi confermato che gli incontri sollecitati da Mannino sul problema della sua sicurezza personale in relazione ad episodi di minacce ed intimidazione si collocano in un periodo in cui lo stesso Mannino era ministro. E questo esclude che siano avvenuti dopo la strage di via D’Amelio (“Ma verosimilmente si, guardi”).
È possibile quindi che la sicurezza che sarà ostentato dallo stesso Mannino in occasione di un intervista rilasciata mesi dopo sul Corsera (il 28 maggio 1993), nascesse dall’esito di quegli accertamenti, unito al tempo trascorso dalla notizia di un imminente attentato senza che ne fosse seguito alcun ulteriore atto intimidatorio.
Ma il 19.07.2000, sempre al processo Mannino aveva dichiarato che la notizia di minacce e di un possibile attentato aveva costretto il Ros ad adottare una serie di iniziative a tutela della personalità minacciata. Più precisamente, quanto era pervenuta alla Dia la notizia che era in preparazione un attentato ai danni di Mannino, ne aveva parlato con Subranni perché anche il Ros era stato interessato al problema della tutela del Ministro. E anche Subranni conveniva sul fatto che le minacce dovessero ricollegarsi all’attività politica del Mannino. Ammette che delle iniziative intraprese ebbe modo di parlare con il Generale Subranni. Non ricorda però di quali iniziative si sia trattato, sebbene sappia benissimo che tra i compiti d’istituto del Ros non figurano servizi di scorta a magistrati o politici o personalità attinte da minacce; e che il servizio di scorta al Ministro Mannino era affidato alla polizia di stato.
Si può obbiettare che sarebbe stato inutile potenziare il servizio di scorta. Ma, a parte che questa era una valutazione da lasciare all’organo competente, ci si deve chiedere piuttosto che cosa il Ros potesse fare, e che cosa Mannino poteva aspettarsi o chiedere che facesse, di diverso e più efficace rispetto agli strumenti operativi azionabili dalla polizia di Stato.
Tavormina al riguardo può solo ribadire che, come Dia, non avevano né gli strumenti né la competenza per portare avanti una qualsiasi iniziativa di protezione del Mannino; ma non esclude di averne parlato anche con De Gennaro che, in quanto vice-direttore della Dia, era a capo della struttura operativa. E presume di averne parlato anche a capo della polizia, il prefetto Parisi che del resto si raccordava direttamente al Prefetto De Gennaro; sicché, avendone Tavormina parlato con De Gennaro, il capo della polizia ne sarà stato informato a sua volta (Non ricorda i particolari, ma finisce per ammettere di averne parlato con De Gennaro: [...]).
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